In Cina i "minatori" dei giochi online I player dei paesi ricchi pagano con centinaia di dollari il lavoro "sporco" di giovani orientali. La paga mensile: da 80 a 200 euro STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
PECHINO - Hai troppi orchi da sgozzare? Appalta il lavoro ai cinesi. Arriva dal mondo dei videogame la nuova ingegnosa pratica di sfruttamento della manodopera a bassissimo costo: in capannoni sparsi in tutta la Cina, migliaia di ragazzi trascorrono giornate e nottate davanti ai videogiochi online, per accaparrarsi denaro e beni fittizi da rivendere su Internet agli utenti occidentali, troppo pigri o impegnati per far da sé.
COME FUNZIONA - Il business che trasforma l'economia virtuale in reale è semplice: nei reami fantastici ad ogni giocatore corrisponde un alter ego, che all'interno di quel mondo combatte contro mostri creati dal computer o altri giocatori in carne ed ossa per conquistare monete d'oro o manufatti come armature, spade, lance, anelli e tutto quanto lo può rendere più potente, temuto, e quindi potenzialmente vincitore. Ma per ottenere tutto questo e far avanzare il proprio personaggio di livello, bisogna trascorrere ore ed ore davanti al monitor. Perciò, la pratica di rivendere ad altri giocatori il frutto del proprio «lavoro», avviata già da qualche anno come redditizio hobby dei giocatori più incalliti, si è trasformata in vera e propria forma di outsourcing, in cui i cinesi sembrano aver preso il sopravvento su altre nazioni; tanto da meritarsi l'appellativo, usato in modo dispregiativo dai giocatori statunitensi, di gold farmers, un termine che evoca le coltivazioni a sfruttamento intensivo, ma che con un po' di libertà tradurremo «minatori»: stipati in stanzoni zeppi di computer accesi giorno e notte, questi atipici lavoratori dell'era digitale, percorrono in lungo e in largo lande virtuali per depredare ogni bene, come facevano gli Unni nell'Impero Romano alla metà del V secolo; finito il turno, che può durare anche fino a 12 ore senza pause, consegnano il bottino al loro Attila, cioè il manager che gestisce la "miniera" e che è pronto a rivendere tutte le merci razziate attraverso Internet.
LA TESTIMONIANZA - «Ci sono diversi modi di farlo», ci racconta Ge Jin, trentenne di Shanghai, che per il suo dottorato di ricerca in comunicazione all'Università della California, ha iniziato a produrre un documentario sul fenomeno: pubblicato come work in progress sul sito YouTube è stato visto da 300mila navigatori in un solo mese.«È possibile vendere attraverso siti specializzati, come Ige.com, nello stesso modo in cui si fa shopping online; altrimenti c'è sempre la possibilità di mettere all'asta i beni virtuali su Ebay.com. Una volta che ci si è accordati sul prezzo, lo scambio avverrà nel mondo virtuale, in un server e un luogo preciso in cui venditore ed acquirente si sono dati appuntamento. Se l'oggetto è addirittura un personaggio, chi vende offrirà in cambio di denaro il proprio account e la propria password per accedere al gioco al posto suo». I numeri che ruotano attorno al mondo dei giochi di ruolo online, come rilevato di recente dal New York Times è ingente: con più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo collegati ogni mese per giocare, le compagnie di videogame incassano 3,6 miliardi di dollari l'anno per le sole sottoscrizioni degli abbonamenti. E basta andare su siti come Ige.com, worldgamebank.com, Ucdao.com o Virdaq.com per rendersi conto dei prezzi di questi beni in vendita: 300 monete d'oro virtuali costano 30 dollari, una pietra magica può costare 129 dollari e un personaggio come uno «stregone non morto» di 60mo livello richiede l'esborso di 599 dollari.
REAZIONI NEGATIVE - Come borse e cinture false vendute ai quattro angoli della strada danneggiano gli stilisti, così l'attività dei gold farmers ha suscitato nel mondo dei videogiochi non poche reazioni negative. Indignati sono anzitutto gli utenti genuini, che hanno pagato un abbonamento per giocare e si lamentano perché spesso vengono estromessi dal gioco da squadre di utenti disinteressati all'esperienza ludica e pronti ad eliminare chiunque pur di accaparrare. La protesta ha convinto persino l'autorevole rivista Pc Gamer, punto di riferimento degli appassionati, a bandire dai suoi inserzionisti i siti d'intermediazione, lanciando una vera e proprio anatema contro gli untori, attraverso le parole del suo direttore, Greg Vederman: «Abbiamo deciso di rinunciare a centinaia di migliaia di dollari di investimenti pubblicitari per salvaguardare il divertimento dei veri giocatori. Invito i miei colleghi direttori di riviste e siti web a fare altrettanto».
CAPITALISMO DIGITALE - In ballo sono state tirate anche le case produttrici di quei giochi di ruolo di massa come World of ********, Final Fantasy XI , Star War Galaxies e Lineage 2, che sono presi di mira dai barbari digitali. L'accordo di licenza distribuito insieme al software infatti vieta espressamente la compravendita reale di beni acquisiti nel gioco, pena la cancellazione dell'account per accedere al mondo virtuale. Il problema è che non è facile, per le multinazionali dei videogame, individuare chi rivende quanto guadagnato nel gioco su Internet, né distinguere tra «minatori» che operano in solitudine e quindi in modo meno dannoso e aziende che sfruttano la manodopera di vere e proprie batterie di lavoratori-giocatori. Anziché combattere il fenomeno, dedicandosi alla dispendiosa ricerca ed eliminazione dei «minatori», le multinazionali dei videogame sembrano intenzionate a cavalcarlo. Una scelta fatta in virtù della rivoluzionaria scoperta per cui «i principi del capitalismo funzionano persino nei reami di fantasia che esistono solo come unione di 1 e 0», come ha dichiarato Anthony Sukow, amministratore delegato di Aesr, società che ha stimato come la spesa su eBay ammonti a più di 2 milioni di dollari al mese per il solo oro virtuale di World of ********.
MERCATO SICURO - E infatti il colosso Sony, che gestisce i server di uno dei giochi di ruolo più seguiti, Everquest 2, ha da poco lanciato il servizio Station Exchange definito «l'unico mercato sicuro per i giocatori». Un sistema che in realtà permette al gestore del videogame di intascare una percentuale per ogni transazione. Potrebbe essere solo la prima mossa di una potente controffensiva nei confronti dei gold farmers: «È sempre più difficile per queste società sopravvivere - racconta Ge Jin, che per realizzare il suo documentario ne ha visitate diverse in Cina -, perché alla concorrenza spietata tra imprese grandi e piccole, si sta ora aggiungendo un fenomeno di inflazione: nei videogame si raccolgono troppi oggetti e oro e di conseguenza il prezzo reale che si può spuntare dagli intermediari diventa sempre più basso».
QUANTO GUADAGNANO - Alla fine a rimetterci saranno sempre i «minatori», ovvero i videogiocatori cinesi sfruttati: «I ragazzi con cui ho parlato - spiega Ge Jin -, amano giocare, per cui non gli pesa stare incollati al monitor per molte ore di seguito, arrivando addirittura a mangiare e dormire all'interno dei laboratori. Il loro salario, che può andare da 100 a 250 dollari al mese, non è molto differente da quello di altri impiegati cinesi, e la maggior parte di questi ragazzi non hanno alternative: molti hanno abbandonato impieghi peggiori o erano disoccupati. Nonostante per gli standard cinesi le loro condizioni di vita non siano così terribili, penso che giocare così a lungo possa danneggiare la loro salute e che i loro capi li sfruttino, anche se i ragazzi non se ne rendono conto». E infatti continuano a gozzare gli orchi.
Marco Consoli
18 aprile 2006
Sono allibito O_O
PECHINO - Hai troppi orchi da sgozzare? Appalta il lavoro ai cinesi. Arriva dal mondo dei videogame la nuova ingegnosa pratica di sfruttamento della manodopera a bassissimo costo: in capannoni sparsi in tutta la Cina, migliaia di ragazzi trascorrono giornate e nottate davanti ai videogiochi online, per accaparrarsi denaro e beni fittizi da rivendere su Internet agli utenti occidentali, troppo pigri o impegnati per far da sé.
COME FUNZIONA - Il business che trasforma l'economia virtuale in reale è semplice: nei reami fantastici ad ogni giocatore corrisponde un alter ego, che all'interno di quel mondo combatte contro mostri creati dal computer o altri giocatori in carne ed ossa per conquistare monete d'oro o manufatti come armature, spade, lance, anelli e tutto quanto lo può rendere più potente, temuto, e quindi potenzialmente vincitore. Ma per ottenere tutto questo e far avanzare il proprio personaggio di livello, bisogna trascorrere ore ed ore davanti al monitor. Perciò, la pratica di rivendere ad altri giocatori il frutto del proprio «lavoro», avviata già da qualche anno come redditizio hobby dei giocatori più incalliti, si è trasformata in vera e propria forma di outsourcing, in cui i cinesi sembrano aver preso il sopravvento su altre nazioni; tanto da meritarsi l'appellativo, usato in modo dispregiativo dai giocatori statunitensi, di gold farmers, un termine che evoca le coltivazioni a sfruttamento intensivo, ma che con un po' di libertà tradurremo «minatori»: stipati in stanzoni zeppi di computer accesi giorno e notte, questi atipici lavoratori dell'era digitale, percorrono in lungo e in largo lande virtuali per depredare ogni bene, come facevano gli Unni nell'Impero Romano alla metà del V secolo; finito il turno, che può durare anche fino a 12 ore senza pause, consegnano il bottino al loro Attila, cioè il manager che gestisce la "miniera" e che è pronto a rivendere tutte le merci razziate attraverso Internet.
LA TESTIMONIANZA - «Ci sono diversi modi di farlo», ci racconta Ge Jin, trentenne di Shanghai, che per il suo dottorato di ricerca in comunicazione all'Università della California, ha iniziato a produrre un documentario sul fenomeno: pubblicato come work in progress sul sito YouTube è stato visto da 300mila navigatori in un solo mese.«È possibile vendere attraverso siti specializzati, come Ige.com, nello stesso modo in cui si fa shopping online; altrimenti c'è sempre la possibilità di mettere all'asta i beni virtuali su Ebay.com. Una volta che ci si è accordati sul prezzo, lo scambio avverrà nel mondo virtuale, in un server e un luogo preciso in cui venditore ed acquirente si sono dati appuntamento. Se l'oggetto è addirittura un personaggio, chi vende offrirà in cambio di denaro il proprio account e la propria password per accedere al gioco al posto suo». I numeri che ruotano attorno al mondo dei giochi di ruolo online, come rilevato di recente dal New York Times è ingente: con più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo collegati ogni mese per giocare, le compagnie di videogame incassano 3,6 miliardi di dollari l'anno per le sole sottoscrizioni degli abbonamenti. E basta andare su siti come Ige.com, worldgamebank.com, Ucdao.com o Virdaq.com per rendersi conto dei prezzi di questi beni in vendita: 300 monete d'oro virtuali costano 30 dollari, una pietra magica può costare 129 dollari e un personaggio come uno «stregone non morto» di 60mo livello richiede l'esborso di 599 dollari.
REAZIONI NEGATIVE - Come borse e cinture false vendute ai quattro angoli della strada danneggiano gli stilisti, così l'attività dei gold farmers ha suscitato nel mondo dei videogiochi non poche reazioni negative. Indignati sono anzitutto gli utenti genuini, che hanno pagato un abbonamento per giocare e si lamentano perché spesso vengono estromessi dal gioco da squadre di utenti disinteressati all'esperienza ludica e pronti ad eliminare chiunque pur di accaparrare. La protesta ha convinto persino l'autorevole rivista Pc Gamer, punto di riferimento degli appassionati, a bandire dai suoi inserzionisti i siti d'intermediazione, lanciando una vera e proprio anatema contro gli untori, attraverso le parole del suo direttore, Greg Vederman: «Abbiamo deciso di rinunciare a centinaia di migliaia di dollari di investimenti pubblicitari per salvaguardare il divertimento dei veri giocatori. Invito i miei colleghi direttori di riviste e siti web a fare altrettanto».
CAPITALISMO DIGITALE - In ballo sono state tirate anche le case produttrici di quei giochi di ruolo di massa come World of ********, Final Fantasy XI , Star War Galaxies e Lineage 2, che sono presi di mira dai barbari digitali. L'accordo di licenza distribuito insieme al software infatti vieta espressamente la compravendita reale di beni acquisiti nel gioco, pena la cancellazione dell'account per accedere al mondo virtuale. Il problema è che non è facile, per le multinazionali dei videogame, individuare chi rivende quanto guadagnato nel gioco su Internet, né distinguere tra «minatori» che operano in solitudine e quindi in modo meno dannoso e aziende che sfruttano la manodopera di vere e proprie batterie di lavoratori-giocatori. Anziché combattere il fenomeno, dedicandosi alla dispendiosa ricerca ed eliminazione dei «minatori», le multinazionali dei videogame sembrano intenzionate a cavalcarlo. Una scelta fatta in virtù della rivoluzionaria scoperta per cui «i principi del capitalismo funzionano persino nei reami di fantasia che esistono solo come unione di 1 e 0», come ha dichiarato Anthony Sukow, amministratore delegato di Aesr, società che ha stimato come la spesa su eBay ammonti a più di 2 milioni di dollari al mese per il solo oro virtuale di World of ********.
MERCATO SICURO - E infatti il colosso Sony, che gestisce i server di uno dei giochi di ruolo più seguiti, Everquest 2, ha da poco lanciato il servizio Station Exchange definito «l'unico mercato sicuro per i giocatori». Un sistema che in realtà permette al gestore del videogame di intascare una percentuale per ogni transazione. Potrebbe essere solo la prima mossa di una potente controffensiva nei confronti dei gold farmers: «È sempre più difficile per queste società sopravvivere - racconta Ge Jin, che per realizzare il suo documentario ne ha visitate diverse in Cina -, perché alla concorrenza spietata tra imprese grandi e piccole, si sta ora aggiungendo un fenomeno di inflazione: nei videogame si raccolgono troppi oggetti e oro e di conseguenza il prezzo reale che si può spuntare dagli intermediari diventa sempre più basso».
QUANTO GUADAGNANO - Alla fine a rimetterci saranno sempre i «minatori», ovvero i videogiocatori cinesi sfruttati: «I ragazzi con cui ho parlato - spiega Ge Jin -, amano giocare, per cui non gli pesa stare incollati al monitor per molte ore di seguito, arrivando addirittura a mangiare e dormire all'interno dei laboratori. Il loro salario, che può andare da 100 a 250 dollari al mese, non è molto differente da quello di altri impiegati cinesi, e la maggior parte di questi ragazzi non hanno alternative: molti hanno abbandonato impieghi peggiori o erano disoccupati. Nonostante per gli standard cinesi le loro condizioni di vita non siano così terribili, penso che giocare così a lungo possa danneggiare la loro salute e che i loro capi li sfruttino, anche se i ragazzi non se ne rendono conto». E infatti continuano a gozzare gli orchi.
Marco Consoli
18 aprile 2006
Sono allibito O_O
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