HAnno pubblicato un mio racconto in rete insieme a molti altri di altri giovani, il 21 fanno la selezione di 13 di questi che verranno messi in forma cartacea
so che non centra ma necessitavo di dirlo
Qui di seguito il racconto
so che non centra ma necessitavo di dirlo
Qui di seguito il racconto
COLUI CHE UN DI' SPERAVA
di Ivan Okroglic
“Dopo le sofferenze che proverai questa notte altro non farai che ringraziare l’inferno quando ti accoglierà fra le sue braccia”
Aprii gli occhi: buio, tutto era buio, un buio denso, un buio palpabile e inquietante. Il buio del nulla e del niente, il buio della dimenticanza. Impercettibile il suono che emisi, grido acuto che non trovò parete sul quale infrangersi.
Mi svegliai. Il sole sorgeva lento e inesorabile, uno dei suoi raggi attraversava la finestra… Tutto era bianco, candido come ogni mattina, almeno fin da quando avevo memoria. Un altro giorno da nessuno, un altro giorno a contemplare la bellezza dell’infinito. Uscii di corsa, senza cambiarmi, senza preoccuparmi, per la prima volta cercavo qualcosa di conosciuto. Alzai lo sguardo al cielo: l’occhio veloce scrutava ogni angolo dell’immensità in cerca dell’ombra della luna, ogni mattina oscurata dai raggi del sole… volevo augurarle un buon riposo, a lei che pareva tanto come un matto sorriso incitante amore e follia. Rimasi ad osservarla finché non scomparve lasciando al mio sguardo l’immensità dipinta di un colore che mi ricordava… Occhi! Sì, occhi tristi,occhi sorridenti, occhi decisi, occhi arrabbiati… Ma erano sempre gli stessi bellissimi occhi, occhi di dama, occhi di donna… Rimasi li a guardare cumuli di nuvole tentar di coprire quel colore che in un istante mi aveva fatto innamorare. Una margherita roteava vorticosamente nella mia mano, mentre nella mente cercavo di far luce. Una luce che non poteva infrangere il nero che mi aveva invaso… Ogni volta che provavo a rintracciare qualcosa fra i miei ricordi provavo un dolore profondo e le lacrime uscivano senza che io ne sapessi il motivo.
Mi avviai verso la camera, il pranzo mi era stato lasciato sul mobile, stuzzicai qualcosa e mi misi a contemplare il bianco soffitto. Bianco, forte intenso e luminoso, un perfetto simbolo di purezza. Era cosi forte da dar fastidio alla vista così chiusi gli occhi…
Buio, intenso e invariato nella sua malinconica monotonia. Infranto però da lunghi e sottili fili dai riflessi blu che sembravano capaci di reggermi. Soffici come un petalo di loto accarezzavano il mio corpo nudo e inebriavano il mio essere con un profumo ipnotico. Lì mi accasciai invaso dai ricordi. Bei ricordi: forme sinuose danzanti fra attimi infiniti ove mani calde scorrono sagome soffici come la neve. Sospiri e sussulti alternati fra dolci movimenti e scatti irruenti che rivivevo sulla mia pelle. Quanta passione avevo dimenticato? O forse avevo voluto dimenticare? La paura attanagliava il mio corpo, iniziai a contorcermi e a urlare fino a disturbare quell’infinita pace. Il nero si frammentò in tanti piccoli pezzi, come uno specchio, mostrandomi una realtà impossibile da comprendere e accettare. La sofferenza tingeva il mio animo trasformando me nel buio più profondo, pianti e urla iraconde bucavano i miei timpani. Chi ero? Dov’ero? Io ero il matto, una folle anima senza senso, ormai incapace di ridere e di piangere e che aveva ormai imparato a danzare fra le fiamme con una maschera di ghiaccio…
Aprii gli occhi. Nessuno mi aveva chiamato, era notte fonda e quella che doveva essere la mia cena si era mutata in un pastone freddo che avrebbe fatto ripugnanza ad un cane. Divorai il tutto, al mio corpo necessitavano forze come se avessi appena combattuto una battaglia ancestrale… Ancora sentivo le passioni e i dolori vissuti. Avevo un impegno… presto, molto presto. Dovevo uscire da qui. La struttura mi lasciava molte libertà, ma non potevo prendere e andare dove volevo. Mi alzai raggiunsi il bagno e mi misi sotto la doccia. Aprii l’acqua calda la lasciai scorrere sulla pelle fino a sentire dolore, a quel punto lentamente la miscelai con la fredda… scacciai da sopra la mia pelle quel che avevo visto, scacciai con essa l’odio, la sofferenza e la felicità. Dovevo essere lucido, dovevo ottenere quella libertà che mi mancava per raggiungere il mio passato. Indossai il mio abito migliore e mi incamminai per i corridoi, per la prima volta mi guardai curioso attorno e vidi tanta gente sperduta, tante persone con gli occhi vuoti che fissavano il vuoto più profondo. Raggiunsi la porta che mi avrebbe condotto alla libertà bussai e…
Un falso sorriso, qualche classica domanda poi un secco “No”. Non si poteva essere “liberi” in cosi poco tempo, bisognava inviare la pratica, seguire la procedura, sostenere degli esami e poi questo e quello... tutto divenne rosso, i miei pugni si serrarono la mia voce si alzò, non avevo più il controllo di me stesso scaraventai fogli all’aria urlai qualcosa di disconnesso… avevo smarrito la mia lucidità. Sentii qualcuno dietro di me, una presa forte non riuscivo più a muovermi poi tutto si fece liquido e i miei occhi si chiusero.
Non vedevo più nero vedevo un portone in stile ottocentesco, una voce cantare in lontananza e poi lei, il suo sorriso che avrebbe scaldato il cuore più gelido, le sue forme sinuose danzanti. Mi veniva incontro cantando e il mio cuore colmo di sentimento la seguiva cantando. Tutto si oscurò di nuovo per ridarmi un'altra scena, un altro posto. Un prato, un bacio e poi una discesa verso l’inevitabile finché di due fummo una cosa sola… Poi vuoto, di nuovo quella sensanzione di solitudine, d’oppressione, pianti, dolore, la mia anima si stava spegnendo al lugubre canto di una sirena…
Chiusi il diario, i miei pensieri accatastati su quelle bianche pagine mi avevano fatto spuntare un sorriso fra il mare di lacrime che ormai copriva il mio volto… Osservai attraverso il vetro la luna alta nel cielo, la salutai con un sorriso, soffiai un bacio… “Piccola mia sto arrivando” presi una rincorsa e saltai a braccia aperte, osservando il nero che mi stava correndo incontro, aspettando che mi abbracciasse ancora una volta.
di Ivan Okroglic
“Dopo le sofferenze che proverai questa notte altro non farai che ringraziare l’inferno quando ti accoglierà fra le sue braccia”
Aprii gli occhi: buio, tutto era buio, un buio denso, un buio palpabile e inquietante. Il buio del nulla e del niente, il buio della dimenticanza. Impercettibile il suono che emisi, grido acuto che non trovò parete sul quale infrangersi.
Mi svegliai. Il sole sorgeva lento e inesorabile, uno dei suoi raggi attraversava la finestra… Tutto era bianco, candido come ogni mattina, almeno fin da quando avevo memoria. Un altro giorno da nessuno, un altro giorno a contemplare la bellezza dell’infinito. Uscii di corsa, senza cambiarmi, senza preoccuparmi, per la prima volta cercavo qualcosa di conosciuto. Alzai lo sguardo al cielo: l’occhio veloce scrutava ogni angolo dell’immensità in cerca dell’ombra della luna, ogni mattina oscurata dai raggi del sole… volevo augurarle un buon riposo, a lei che pareva tanto come un matto sorriso incitante amore e follia. Rimasi ad osservarla finché non scomparve lasciando al mio sguardo l’immensità dipinta di un colore che mi ricordava… Occhi! Sì, occhi tristi,occhi sorridenti, occhi decisi, occhi arrabbiati… Ma erano sempre gli stessi bellissimi occhi, occhi di dama, occhi di donna… Rimasi li a guardare cumuli di nuvole tentar di coprire quel colore che in un istante mi aveva fatto innamorare. Una margherita roteava vorticosamente nella mia mano, mentre nella mente cercavo di far luce. Una luce che non poteva infrangere il nero che mi aveva invaso… Ogni volta che provavo a rintracciare qualcosa fra i miei ricordi provavo un dolore profondo e le lacrime uscivano senza che io ne sapessi il motivo.
Mi avviai verso la camera, il pranzo mi era stato lasciato sul mobile, stuzzicai qualcosa e mi misi a contemplare il bianco soffitto. Bianco, forte intenso e luminoso, un perfetto simbolo di purezza. Era cosi forte da dar fastidio alla vista così chiusi gli occhi…
Buio, intenso e invariato nella sua malinconica monotonia. Infranto però da lunghi e sottili fili dai riflessi blu che sembravano capaci di reggermi. Soffici come un petalo di loto accarezzavano il mio corpo nudo e inebriavano il mio essere con un profumo ipnotico. Lì mi accasciai invaso dai ricordi. Bei ricordi: forme sinuose danzanti fra attimi infiniti ove mani calde scorrono sagome soffici come la neve. Sospiri e sussulti alternati fra dolci movimenti e scatti irruenti che rivivevo sulla mia pelle. Quanta passione avevo dimenticato? O forse avevo voluto dimenticare? La paura attanagliava il mio corpo, iniziai a contorcermi e a urlare fino a disturbare quell’infinita pace. Il nero si frammentò in tanti piccoli pezzi, come uno specchio, mostrandomi una realtà impossibile da comprendere e accettare. La sofferenza tingeva il mio animo trasformando me nel buio più profondo, pianti e urla iraconde bucavano i miei timpani. Chi ero? Dov’ero? Io ero il matto, una folle anima senza senso, ormai incapace di ridere e di piangere e che aveva ormai imparato a danzare fra le fiamme con una maschera di ghiaccio…
Aprii gli occhi. Nessuno mi aveva chiamato, era notte fonda e quella che doveva essere la mia cena si era mutata in un pastone freddo che avrebbe fatto ripugnanza ad un cane. Divorai il tutto, al mio corpo necessitavano forze come se avessi appena combattuto una battaglia ancestrale… Ancora sentivo le passioni e i dolori vissuti. Avevo un impegno… presto, molto presto. Dovevo uscire da qui. La struttura mi lasciava molte libertà, ma non potevo prendere e andare dove volevo. Mi alzai raggiunsi il bagno e mi misi sotto la doccia. Aprii l’acqua calda la lasciai scorrere sulla pelle fino a sentire dolore, a quel punto lentamente la miscelai con la fredda… scacciai da sopra la mia pelle quel che avevo visto, scacciai con essa l’odio, la sofferenza e la felicità. Dovevo essere lucido, dovevo ottenere quella libertà che mi mancava per raggiungere il mio passato. Indossai il mio abito migliore e mi incamminai per i corridoi, per la prima volta mi guardai curioso attorno e vidi tanta gente sperduta, tante persone con gli occhi vuoti che fissavano il vuoto più profondo. Raggiunsi la porta che mi avrebbe condotto alla libertà bussai e…
Un falso sorriso, qualche classica domanda poi un secco “No”. Non si poteva essere “liberi” in cosi poco tempo, bisognava inviare la pratica, seguire la procedura, sostenere degli esami e poi questo e quello... tutto divenne rosso, i miei pugni si serrarono la mia voce si alzò, non avevo più il controllo di me stesso scaraventai fogli all’aria urlai qualcosa di disconnesso… avevo smarrito la mia lucidità. Sentii qualcuno dietro di me, una presa forte non riuscivo più a muovermi poi tutto si fece liquido e i miei occhi si chiusero.
Non vedevo più nero vedevo un portone in stile ottocentesco, una voce cantare in lontananza e poi lei, il suo sorriso che avrebbe scaldato il cuore più gelido, le sue forme sinuose danzanti. Mi veniva incontro cantando e il mio cuore colmo di sentimento la seguiva cantando. Tutto si oscurò di nuovo per ridarmi un'altra scena, un altro posto. Un prato, un bacio e poi una discesa verso l’inevitabile finché di due fummo una cosa sola… Poi vuoto, di nuovo quella sensanzione di solitudine, d’oppressione, pianti, dolore, la mia anima si stava spegnendo al lugubre canto di una sirena…
Chiusi il diario, i miei pensieri accatastati su quelle bianche pagine mi avevano fatto spuntare un sorriso fra il mare di lacrime che ormai copriva il mio volto… Osservai attraverso il vetro la luna alta nel cielo, la salutai con un sorriso, soffiai un bacio… “Piccola mia sto arrivando” presi una rincorsa e saltai a braccia aperte, osservando il nero che mi stava correndo incontro, aspettando che mi abbracciasse ancora una volta.
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