<<Era autunno quando Aeria decise. Lei era stufa, stufa di dover vivere come voleva suo padre, stufa come tante ragazze della sua età e ancora più stufa di essere la figlia del re di Valon. Io la conobbi dal tempo in cui ebbe appena compiuto 3 anni, ma non ho memoria di quei ricordi lontani, più che sfocati, persi nell'oblio di una memoria ancora non formata. Il regno di Valon non ha mai avuto un rapporto fervido, negli ultimi secoli, con il resto di Sosaria. Un tempo il nostro reame aveva dei grossi scambi commerciali con il regno di terra, così lo chiamiamo noi, e le nostre strade erano un variopinto mescolarsi delle più strane razze che popolavano il pianeta. Il commercio era florido grazie a Valon, in quanto la sua peculiare caratteristica rendeva il regno il porto ideale per ogni scambio. Dovete sapere, voi che leggete, che Valon non è raggiungibile se non dai suoi stessi abitanti, o tramite il loro volere, in quanto esso fluttua al di là delle nuvole. Per questa caratteristica, e per il suo continuo spostarsi lungo il territorio conosciuto, "era un vero porto di mare", se mi concedete il termine, delle più svariate razze. Anche il popolo di Valon tuttavia aveva qualcosa di speciale. Voi vi chiederete forse come essi potevano tornare a casa, se un giorno gli fosse saltato per la testa di viaggiare lungo il mondo. Bene, essi avevano un paio d'ali sulla schiena. Esatto, proprio così, sulla loro schiena spiccano un paio di bianche ali, alte un braccio oltre la nostra testa, e la cui attaccatura si trova esattamente tra le nostre scapole. Ebbene, Aeria era stufa di questo, era stufa di ali ed era stufa di non spostarsi, ma di farsi spostare.
Un giorno mentre la vidi sognante guardando verso la terra (già, ironia della sorte, noi sogniamo verso la terra, voi sognate verso le nuvole), capii che si era allontanata da noi. Lei non era più qua, tra le mura del palazzo, ed io non mi sentii capace di poter richiamare tra di noi il suo spirito libero.
Fu la vigilia dell'autunno del suo sedicesimo compleanno quando capii che ormai ci stava salutando. Lo capii quasi subito, perché non si trovava più là come ogni giorno a sospirare verso una terra che non aveva mai calpestato, ma a trascorrere i giorni elargendo falsi sorrisi di malinconia a chiunque la incontrava. Quando si volse verso di me, il terzo giorno di questi, e mi guardò fisso negli occhi, tuttavia, non sorrise. Perché mai? Perché per me non ci fu sorriso che mai nessuna donna più degna di lei avrebbe potuto portare in dono agli stessi dèi? L'unica cosa che rivolse a me fu un languido abbraccio sfuggevole quanto il soffio del vento, e lì capii che i nostri destini avevano di che intrecciarsi.
Il quarto giorno il regno si preparava alla festa d'autunno, che da lì si sarebbe poi svolta in una settimana. Passai questo periodo con la consapevolezza che Aeria non avrebbe tentato il volo prima di vedere i fuochi autunnali, come congedo dal suo mondo.
La prima notte della festa, mi recai a Nairsul, la grande cascata che cingeva il bordo del nostro reame, e attesi, perché avevo in me la consapevolezza che quello fosse l'unico punto da cui lei poteva infine dire addio a tutto. Fu il silenzio per quasi 3 ore, mentre con i miei occhi scorsi le fievoli luci tra le nubi al di sotto.
<<Oaks>>
Mi voltai.
<<Aeria>>
Ella mi guardava per niente sbigottita, ma anzi con i tratti del volto che esprimevano consapevolezza.
<<Sapevo che saresti venuto, Oaks.>>
<<Lo sapevi?>>
<<Per questo ti ho abbracciato, Oaks, perché tu fossi con me.>>
I primi fuochi spiccavano nell'ombra dei tigli e delle felci come chiazze multicolore di rosso e verde, lo ricordo bene, perché le bianche ali di Aeria divennero un arcobaleno di luce, e capii cosa andava cercando in quella sua fuga. E capii quasi immediatamente che non era una fuga la sua, ma il tentativo di riprendere il controllo della proprio vita. Non era un scappare, ma un affrontare la vita con tutta se stessa. Che sciocco sono stato ad aver dubitato di lei.
Si avvicino a me con passo leggero, ulteriormente ovattato dal prato di foglie cadute che caratterizzavano quella stagione. Mi superò, ed io fui con lei negli ultimi passi che ci separavano dal bordo del regno. Non ci fu ultimo sguardo, ulteriore ripensamento o parola, spiccammo semplicemente il volo, verso qualcosa che ancora non conoscevamo.
Fu mattina quando ripresi conoscenza, e mentre i miei occhi si adattavano alla nuova luce, e le mie indolenzite ali si muovevano a stento, lei era davanti a me, in piedi. Ricordo bene quell'immagine, perché fu la prima vista che ebbi del mondo terrestre, e fu anche l'ultimo bel ricordo che ho di lei. La sua lunga tunica le arrivava sino a terra coprendole i piedi, mentre con la mano destra la teneva leggermente sollevata per un lato. I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle in ciocche leggermente arricciate, e le sue candide ali erano spiegate. La terra attorno ai suoi piedi era anch'essa color dell'oro simbolo dell'autunno, e secchi arbusti davano qua e là un tocco di novità in quanto niente ingiallisce, a Valon. Lei mi sorrise. Finalmente ricevetti quel sorriso che bramavo, quel sorrivo per cui ho deciso che valeva la pena di salutare il mio mondo, per vivere nella speranza di poterlo ricevere, un giorno.
<< Aeria, finalmente hai realizzato il tuo sogno>> dissi. E per questa frase e per il sentimento di gioia che provai per lei, ancora mi vergogno.
Camminammo attraverso boschi e foreste per un numero incalcolabile di giorni, prima di giungere alla prima città. Essa è quella che voi chiamate Britain. Celammo le nostre spoglie semiumane attraverso ampie vesti, e prendemmo una piccola stanza in affitto presso una locanda del posto. Pagammo con i soldi che tenevamo con noi, e nel mentre trascorremmo i nostri giorni nel cercare un lavoro. Aeria non ebbe problemi a trovarlo, in quanto era una ragazza splendida, ricca di vita, gioia e bellezza. Fu assunta dallo stesso locandiere che ci offriva ospitalità, come cameriera, e sebbene non fosse abituata a lavorare, ne fu felice, fu felice di aver fatto una sua scelta.
Sino a quel giorno.
Era il solsistizio d'inverno quando giunse in locanda un signore del posto, da voi chiamato Blackthorne. La sua armatura del color della pece fu intonata con i capelli corvini che gli arrivavano alla nuca. Egli non giunse per mangiare, ma per Aeria, lo capii subito dal momento in cui con lo sguardo non cercò un tavolo, ma cerco lei.
Egli fu gentile per il primo periodo, la portava fuori a conoscere il mondo e il regno, la invitava ai balli e le portava dei fiori. Tuttavia questa felicità non durò a lungo. Un anno circa dopo il loro incontro, tutto cominciò a cambiare. Egli non si fece più vivo come agli inizi, e tutte le volte che non poteva mantere una promessa, non venne più lui ad avvertire, ma un suo scagnozzo, e in seguito, mancò anche lui alla presenza. La mia povera Aeria, adulta ma ingenua del male che poteva celarsi dietro l'amore umano, cadde ben presto in depressione, fino al giorno in cui decise di chiedere spiegazioni.
Si recò a mia insaputa al castello di Blackthorne, poco fuori città, mentre io fui occupato a consegnare un'ordinazione. Quando fui di ritorno alla locanda, notai una folla addensarsi attorno al ponte che conduceva verso il castello di Blackthorne, e incuriosito, mi feci strada tra essa. E là vidi ciò che mai mi sarei aspettato di vedere. Aeria chiusa in una gabbia, appesa in cima ai merli del castello, con le vesti lacere e le sue candide ali macchiate di sangue. Io corsi verso le porte di quel maniero, ma le guardie mi fermarono e mi lasciarono là per terra, più morto che vivo, dopo avermi pestato a sangue, impotente di fronte alla scena che andava a pararsi davanti ai miei occhi.
Blackthorne, pazzo, cingeva tra le sue braccia lo scudo con il vessillo del Chaos, e nei suoi occhi la follia aveva ormai cancellato ogni traccia di umana razionalità. Andò verso Aeria, ed estraendo la sua macabra arma, la punto davanti al suo viso, schernendola con roche risa. Ciò che più segnò il mio dolore di quell'attimo, fu lei.
Non tremava.
Guardò me, e solo muovendo le labbra senza proferir sussurro, potei leggere un "grazie" e ancora un "addio", seguito da un sorriso, il più bel sorriso che le abbia mai visto fare. Poi guardò lui, e ciò che mi fece più dannare fu proprio questa scena. Guardo lui e non guardò un estraneo, ella guardò il suo innamorato, con gli stessi occhi del primo giorno, con lo stesso sorriso e lo stesso amore sin al momento in cui la spada le trafisse il cuore.
Era ormai notte e la pioggia cadeva fitta quando tutti furono ormai andati via da ore e io ancora rimasi là. Mi alzai e tra le fredde gocce di pioggia vi furono mescolate le calde gocce del suo sangue. Sopra di me, il suo bel corpo era mutilato e fatto a pezzi, inchiodato sulle rocce cadenti del suo maniero. Le sue due ali così candide, erano incotraste di sangue raffermo e spiccavano più di tutte, al di sopra dell'arazzo del Chaos all'ingresso. Egli compì con il suo cuore sordido rito e aberrante magia, dove scoprii solo più tardi che l'ingrediente principale era il cuore candido di una fanciulla innamorata, una fanciulla il cui sangue non era di questa terra.
Un giorno mentre la vidi sognante guardando verso la terra (già, ironia della sorte, noi sogniamo verso la terra, voi sognate verso le nuvole), capii che si era allontanata da noi. Lei non era più qua, tra le mura del palazzo, ed io non mi sentii capace di poter richiamare tra di noi il suo spirito libero.
Fu la vigilia dell'autunno del suo sedicesimo compleanno quando capii che ormai ci stava salutando. Lo capii quasi subito, perché non si trovava più là come ogni giorno a sospirare verso una terra che non aveva mai calpestato, ma a trascorrere i giorni elargendo falsi sorrisi di malinconia a chiunque la incontrava. Quando si volse verso di me, il terzo giorno di questi, e mi guardò fisso negli occhi, tuttavia, non sorrise. Perché mai? Perché per me non ci fu sorriso che mai nessuna donna più degna di lei avrebbe potuto portare in dono agli stessi dèi? L'unica cosa che rivolse a me fu un languido abbraccio sfuggevole quanto il soffio del vento, e lì capii che i nostri destini avevano di che intrecciarsi.
Il quarto giorno il regno si preparava alla festa d'autunno, che da lì si sarebbe poi svolta in una settimana. Passai questo periodo con la consapevolezza che Aeria non avrebbe tentato il volo prima di vedere i fuochi autunnali, come congedo dal suo mondo.
La prima notte della festa, mi recai a Nairsul, la grande cascata che cingeva il bordo del nostro reame, e attesi, perché avevo in me la consapevolezza che quello fosse l'unico punto da cui lei poteva infine dire addio a tutto. Fu il silenzio per quasi 3 ore, mentre con i miei occhi scorsi le fievoli luci tra le nubi al di sotto.
<<Oaks>>
Mi voltai.
<<Aeria>>
Ella mi guardava per niente sbigottita, ma anzi con i tratti del volto che esprimevano consapevolezza.
<<Sapevo che saresti venuto, Oaks.>>
<<Lo sapevi?>>
<<Per questo ti ho abbracciato, Oaks, perché tu fossi con me.>>
I primi fuochi spiccavano nell'ombra dei tigli e delle felci come chiazze multicolore di rosso e verde, lo ricordo bene, perché le bianche ali di Aeria divennero un arcobaleno di luce, e capii cosa andava cercando in quella sua fuga. E capii quasi immediatamente che non era una fuga la sua, ma il tentativo di riprendere il controllo della proprio vita. Non era un scappare, ma un affrontare la vita con tutta se stessa. Che sciocco sono stato ad aver dubitato di lei.
Si avvicino a me con passo leggero, ulteriormente ovattato dal prato di foglie cadute che caratterizzavano quella stagione. Mi superò, ed io fui con lei negli ultimi passi che ci separavano dal bordo del regno. Non ci fu ultimo sguardo, ulteriore ripensamento o parola, spiccammo semplicemente il volo, verso qualcosa che ancora non conoscevamo.
Fu mattina quando ripresi conoscenza, e mentre i miei occhi si adattavano alla nuova luce, e le mie indolenzite ali si muovevano a stento, lei era davanti a me, in piedi. Ricordo bene quell'immagine, perché fu la prima vista che ebbi del mondo terrestre, e fu anche l'ultimo bel ricordo che ho di lei. La sua lunga tunica le arrivava sino a terra coprendole i piedi, mentre con la mano destra la teneva leggermente sollevata per un lato. I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle in ciocche leggermente arricciate, e le sue candide ali erano spiegate. La terra attorno ai suoi piedi era anch'essa color dell'oro simbolo dell'autunno, e secchi arbusti davano qua e là un tocco di novità in quanto niente ingiallisce, a Valon. Lei mi sorrise. Finalmente ricevetti quel sorriso che bramavo, quel sorrivo per cui ho deciso che valeva la pena di salutare il mio mondo, per vivere nella speranza di poterlo ricevere, un giorno.
<< Aeria, finalmente hai realizzato il tuo sogno>> dissi. E per questa frase e per il sentimento di gioia che provai per lei, ancora mi vergogno.
Camminammo attraverso boschi e foreste per un numero incalcolabile di giorni, prima di giungere alla prima città. Essa è quella che voi chiamate Britain. Celammo le nostre spoglie semiumane attraverso ampie vesti, e prendemmo una piccola stanza in affitto presso una locanda del posto. Pagammo con i soldi che tenevamo con noi, e nel mentre trascorremmo i nostri giorni nel cercare un lavoro. Aeria non ebbe problemi a trovarlo, in quanto era una ragazza splendida, ricca di vita, gioia e bellezza. Fu assunta dallo stesso locandiere che ci offriva ospitalità, come cameriera, e sebbene non fosse abituata a lavorare, ne fu felice, fu felice di aver fatto una sua scelta.
Sino a quel giorno.
Era il solsistizio d'inverno quando giunse in locanda un signore del posto, da voi chiamato Blackthorne. La sua armatura del color della pece fu intonata con i capelli corvini che gli arrivavano alla nuca. Egli non giunse per mangiare, ma per Aeria, lo capii subito dal momento in cui con lo sguardo non cercò un tavolo, ma cerco lei.
Egli fu gentile per il primo periodo, la portava fuori a conoscere il mondo e il regno, la invitava ai balli e le portava dei fiori. Tuttavia questa felicità non durò a lungo. Un anno circa dopo il loro incontro, tutto cominciò a cambiare. Egli non si fece più vivo come agli inizi, e tutte le volte che non poteva mantere una promessa, non venne più lui ad avvertire, ma un suo scagnozzo, e in seguito, mancò anche lui alla presenza. La mia povera Aeria, adulta ma ingenua del male che poteva celarsi dietro l'amore umano, cadde ben presto in depressione, fino al giorno in cui decise di chiedere spiegazioni.
Si recò a mia insaputa al castello di Blackthorne, poco fuori città, mentre io fui occupato a consegnare un'ordinazione. Quando fui di ritorno alla locanda, notai una folla addensarsi attorno al ponte che conduceva verso il castello di Blackthorne, e incuriosito, mi feci strada tra essa. E là vidi ciò che mai mi sarei aspettato di vedere. Aeria chiusa in una gabbia, appesa in cima ai merli del castello, con le vesti lacere e le sue candide ali macchiate di sangue. Io corsi verso le porte di quel maniero, ma le guardie mi fermarono e mi lasciarono là per terra, più morto che vivo, dopo avermi pestato a sangue, impotente di fronte alla scena che andava a pararsi davanti ai miei occhi.
Blackthorne, pazzo, cingeva tra le sue braccia lo scudo con il vessillo del Chaos, e nei suoi occhi la follia aveva ormai cancellato ogni traccia di umana razionalità. Andò verso Aeria, ed estraendo la sua macabra arma, la punto davanti al suo viso, schernendola con roche risa. Ciò che più segnò il mio dolore di quell'attimo, fu lei.
Non tremava.
Guardò me, e solo muovendo le labbra senza proferir sussurro, potei leggere un "grazie" e ancora un "addio", seguito da un sorriso, il più bel sorriso che le abbia mai visto fare. Poi guardò lui, e ciò che mi fece più dannare fu proprio questa scena. Guardo lui e non guardò un estraneo, ella guardò il suo innamorato, con gli stessi occhi del primo giorno, con lo stesso sorriso e lo stesso amore sin al momento in cui la spada le trafisse il cuore.
Era ormai notte e la pioggia cadeva fitta quando tutti furono ormai andati via da ore e io ancora rimasi là. Mi alzai e tra le fredde gocce di pioggia vi furono mescolate le calde gocce del suo sangue. Sopra di me, il suo bel corpo era mutilato e fatto a pezzi, inchiodato sulle rocce cadenti del suo maniero. Le sue due ali così candide, erano incotraste di sangue raffermo e spiccavano più di tutte, al di sopra dell'arazzo del Chaos all'ingresso. Egli compì con il suo cuore sordido rito e aberrante magia, dove scoprii solo più tardi che l'ingrediente principale era il cuore candido di una fanciulla innamorata, una fanciulla il cui sangue non era di questa terra.
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