Grazie grazie di cuore. Mi state leggendo, per questo vi ringrazio.
Scriverei per la verità anche senza i vostri occhi su questa pagina, scriverei e consumerei lo stesso la matita come un reagente, perché questa è la mia magia più potente. Non resistetegli, seguitemi.
Nacqui l’anno in cui le tempeste furono avide di pioggia, in cui i lampi di calore per lunghi mesi crepitarono di blu, irraggiungibili all’orizzonte come chimere; l’anno che tutti i contadini del mio villaggio ricordano come il Gran Secco. Aprì un triste periodo di carestia e gettò molte famiglie sulla strada, a mendicare, a morire a mucchi ai bordi dello sterrato. La mia famiglia se la cavò meglio, conservammo la casa e la maggior parte del nostro podere ed io sopravvissi, io e un mio fratellino.
La mia infanzia trascorse veloce. A quattro anni era finita, cominciava la mia vita tra i lavori domestici … ben presto scoprii il peso della normalità. Incominciò come un prurito e finì per condizionare il mio futuro. Nel villaggio da cui arrivo la normalità ha nell’obbedienza paterna le catene più spesse e, come tanti prima di me, anch’io la mia prima battaglia la disputai con mio padre. E la persi.
Mio padre era nato contadino, come suo padre e su nonno prima di lui. Si era rotto la schiena nei campi dello zio dall’età di otto anni, incessantemente aveva anteposto la famiglia alla sua salute. È grazie a lui, ai soldi che era riuscito a mettere da parte, che sopravvivemmo al Gran Secco. Era un uomo basso, ben piantato su due gambe arcuate, dalla carnagione chiara e verdastra che tradiva discendenze lontane dalle genti dei boschi. Una malattia a tre anni gli inibì l’uso della parola. Atrofia della lingua, se la cavò con poco. Fu l’unico dei suoi fratelli a sopravvivere e non sembrò mai dare troppo peso alla sua mancanza. Con me per lo meno riuscì sempre a farsi capire, e di qualche discussione porto i segni ancora oggi…
Gente rozza e gran lavoratrice i miei avi, ed io, il mio destino, non avevo modo di riscriverlo secondo lui. Tutto era già stato deciso. La mia vita cominciava e finiva tra le mura di una casa, attorno al focolare di una famiglia, fabbrica di bambini, moglie devota, figlia ligia nell’accudire i genitori. Da non crederci quanto fosse bravo mio padre ad articolare discorsi con quelle sue mani callose e piagate!
Solo la fuga, con la sua vergogna, mi avrebbe permesso di eludere le spire sempre più strette del mio destino. A tredici anni, fuggii. La notte, nella più classica delle maniere, dalla finestra. Fu così che cominciò, con impeto di orgoglio, con un ruggito di libertà, la mia nuova vita. Libera, finalmente libera di scrivere il mio futuro!
La gioia di quei giorni fu la pazza corsa di un puledro che spezza le redini e si lancia ventre a terra in una corsa sfrenata. Il senno d’oggi mi fa ripensare con una certa disapprovazione alla spensierata felicità d’allora. Senza misura l’ebbrezza della libertà fa che il puledro non veda più in là delle sue froge. Accadde così che non mi accorsi dell’avvicinarsi del pericolo: coricata nell’erba, spensierata, io guardavo il cielo. Chi ha temuto il destino di un futuro rinchiuso tra quattro mura si sente protetto – è comprensibile – nell’immenso spazio della natura. I rumori quel pomeriggio sembravano l’arpeggio che la brezza primaverile strappava alle fronde, la luce e le ombre danzavano sul mio viso beato al ritmo della musica. Il rumore dei loro passi non lo udii, la loro ombra la vidi solo quando venne a coprirmi il viso. Fui fatta prigioniera. Non mi uccisero solo perché mi volevano tenere per altri scopi. Quali, non lo seppi mai.
Marciammo diversi giorni nei boschi. Passammo due fiumi e una collina; poi, in una notte uguale a tante, il gruppo inciampò in una pattuglia: guardie sulle tracce di alcuni orchi ladri di bestiame. La lotta non fu lunga né cruenta. La truppa era stanca e senza entusiasmo. Il gruppo dei miei rapitori poi si dimostrò alquanto pavido… ai primi schizzi di sangue gettarono le armi e vennero presi prigionieri. Ed io con loro.
Ci trascinarono come bestie alla transumanza. A nulla valsero le mie proteste, via via più flebili col passare dei chilometri. Di quella tragica marcia mi ricordo la pioggia sferzante, mi ricordo come lavava via le forze a poco a poco. Arrivammo dopo due settimane in città. Io deliravo. Febbre delle paludi. Se ne porta via tanti, mi spiegarono poi. Io sopravvissi e non appena guarita dovetti affrontare il processo.
Anch’io come i miei rapitori finii in carcere per l’assassinio di un fabbro di cui non sapevo niente. La giustizia spesso si rifugia lontano dalle aule di un tribunale. Qualche anno dopo sentii un bardo nella piazza di un paese. Le sue parole me le sono fatte scrivere in cambio di una notte di piacere:
“Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà
se c'è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione.
È cominciata un'ora prima
e un'ora dopo era già finita
ho visto gente venire sola
e poi insieme verso l'uscita
non mi aspettavo un vostro errore
uomini e donne di tribunale
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci so stare
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci sono stare.
Fuori dell'aula sulla strada
ma in mezzo al fuori anche fuori di là
ho chiesto al meglio della mia faccia
una polemica di dignità
tante le grinte, le ghigne, i musi,
vagli a spiegare che è primavera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera.
Tante le grinte, le ghigne, i musi,
poche le facce, tra loro lei,
si sta chiedendo tutto in un giorno
si suggerisce, ci giurerei
quel che dirà di me alla gente
quel che dirà ve lo dico io
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio.
Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.
E adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual'è il crimine giusto
per non passare da criminali.
Ci hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame.
Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
abbiamo deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete lo stesso coinvolti.
Per quanto voi vi crediate assolti
siete lo stesso coinvolti.”
[De Andrè, Nella mia ora di libertà]
Non credo serva aggiungere nulla. Le parole del testo raccontano di un uomo arrestato ingiustamente, imprigionato ingiustamente, a cui uomini e donne di tribunale tolgono la primavera. Non credo al destino, ma questa canzone, quel giovane bardo, l’aveva rubata alla mia vita… ed io di strada ne ho fatta tanta, da quella ginnastica di obbedienza a cui ero avvezza… il senso della violenza, quello fino ad allora ancora mancava alla mia vita, ma la prigione – dannata prigione! – ha il potere di corrodere anche il cuore più puro.
Uscii di prigione dopo qualche anno. In quegli tempo immobile avevo imparato cos’era la legge di natura, avevo imparato che il forte si approfitta del debole e che era normale tra gli uomini essere forti coi deboli, deboli coi forti. Entrai in prigione giovane spensierata e piena di speranze, ne uscii disgustata dal genere umano. Fu questo mio disgusto che mi portò a preferire la compagnia dei libri e degli animali, e che mi portò a vivere come questi, nei boschi.
Passarono altri anni prima che mi stufai della solitudine, prima che mi decisi ad affrontare l’avventura della mia vita. Furono anni di studio e di lunghe riflessioni. Studiai l’arcano mondo della magia e insieme il vivace mondo degli animali. Arrivai a far crepitare le mie dita e incenerire una corteccia da dieci passi e a saper distinguere un passero venato da un tordo biancobecco. Ma non arrivai mai a capire perché e per divertire chi noi siamo qui.
La mia magia è giunta al termine. Ringrazio di nuovo i vostri pazienti occhi. Vi lascio con una mia riflessione, segnata a margine di un testo di filosofia che lessi ormai parecchi anni fa. Ancora grazie.
I miei studi mi hanno insegnato
che per giocare
bisogna conoscere le regole del gioco.
E che tutto è un gioco.
Alcuni creano regole, altri giocano…
è un gioco di ruoli in cui vivere è difficile
e morire è impensabile.
Scriverei per la verità anche senza i vostri occhi su questa pagina, scriverei e consumerei lo stesso la matita come un reagente, perché questa è la mia magia più potente. Non resistetegli, seguitemi.
Nacqui l’anno in cui le tempeste furono avide di pioggia, in cui i lampi di calore per lunghi mesi crepitarono di blu, irraggiungibili all’orizzonte come chimere; l’anno che tutti i contadini del mio villaggio ricordano come il Gran Secco. Aprì un triste periodo di carestia e gettò molte famiglie sulla strada, a mendicare, a morire a mucchi ai bordi dello sterrato. La mia famiglia se la cavò meglio, conservammo la casa e la maggior parte del nostro podere ed io sopravvissi, io e un mio fratellino.
La mia infanzia trascorse veloce. A quattro anni era finita, cominciava la mia vita tra i lavori domestici … ben presto scoprii il peso della normalità. Incominciò come un prurito e finì per condizionare il mio futuro. Nel villaggio da cui arrivo la normalità ha nell’obbedienza paterna le catene più spesse e, come tanti prima di me, anch’io la mia prima battaglia la disputai con mio padre. E la persi.
Mio padre era nato contadino, come suo padre e su nonno prima di lui. Si era rotto la schiena nei campi dello zio dall’età di otto anni, incessantemente aveva anteposto la famiglia alla sua salute. È grazie a lui, ai soldi che era riuscito a mettere da parte, che sopravvivemmo al Gran Secco. Era un uomo basso, ben piantato su due gambe arcuate, dalla carnagione chiara e verdastra che tradiva discendenze lontane dalle genti dei boschi. Una malattia a tre anni gli inibì l’uso della parola. Atrofia della lingua, se la cavò con poco. Fu l’unico dei suoi fratelli a sopravvivere e non sembrò mai dare troppo peso alla sua mancanza. Con me per lo meno riuscì sempre a farsi capire, e di qualche discussione porto i segni ancora oggi…
Gente rozza e gran lavoratrice i miei avi, ed io, il mio destino, non avevo modo di riscriverlo secondo lui. Tutto era già stato deciso. La mia vita cominciava e finiva tra le mura di una casa, attorno al focolare di una famiglia, fabbrica di bambini, moglie devota, figlia ligia nell’accudire i genitori. Da non crederci quanto fosse bravo mio padre ad articolare discorsi con quelle sue mani callose e piagate!
Solo la fuga, con la sua vergogna, mi avrebbe permesso di eludere le spire sempre più strette del mio destino. A tredici anni, fuggii. La notte, nella più classica delle maniere, dalla finestra. Fu così che cominciò, con impeto di orgoglio, con un ruggito di libertà, la mia nuova vita. Libera, finalmente libera di scrivere il mio futuro!
La gioia di quei giorni fu la pazza corsa di un puledro che spezza le redini e si lancia ventre a terra in una corsa sfrenata. Il senno d’oggi mi fa ripensare con una certa disapprovazione alla spensierata felicità d’allora. Senza misura l’ebbrezza della libertà fa che il puledro non veda più in là delle sue froge. Accadde così che non mi accorsi dell’avvicinarsi del pericolo: coricata nell’erba, spensierata, io guardavo il cielo. Chi ha temuto il destino di un futuro rinchiuso tra quattro mura si sente protetto – è comprensibile – nell’immenso spazio della natura. I rumori quel pomeriggio sembravano l’arpeggio che la brezza primaverile strappava alle fronde, la luce e le ombre danzavano sul mio viso beato al ritmo della musica. Il rumore dei loro passi non lo udii, la loro ombra la vidi solo quando venne a coprirmi il viso. Fui fatta prigioniera. Non mi uccisero solo perché mi volevano tenere per altri scopi. Quali, non lo seppi mai.
Marciammo diversi giorni nei boschi. Passammo due fiumi e una collina; poi, in una notte uguale a tante, il gruppo inciampò in una pattuglia: guardie sulle tracce di alcuni orchi ladri di bestiame. La lotta non fu lunga né cruenta. La truppa era stanca e senza entusiasmo. Il gruppo dei miei rapitori poi si dimostrò alquanto pavido… ai primi schizzi di sangue gettarono le armi e vennero presi prigionieri. Ed io con loro.
Ci trascinarono come bestie alla transumanza. A nulla valsero le mie proteste, via via più flebili col passare dei chilometri. Di quella tragica marcia mi ricordo la pioggia sferzante, mi ricordo come lavava via le forze a poco a poco. Arrivammo dopo due settimane in città. Io deliravo. Febbre delle paludi. Se ne porta via tanti, mi spiegarono poi. Io sopravvissi e non appena guarita dovetti affrontare il processo.
Anch’io come i miei rapitori finii in carcere per l’assassinio di un fabbro di cui non sapevo niente. La giustizia spesso si rifugia lontano dalle aule di un tribunale. Qualche anno dopo sentii un bardo nella piazza di un paese. Le sue parole me le sono fatte scrivere in cambio di una notte di piacere:
“Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà
se c'è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione.
È cominciata un'ora prima
e un'ora dopo era già finita
ho visto gente venire sola
e poi insieme verso l'uscita
non mi aspettavo un vostro errore
uomini e donne di tribunale
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci so stare
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci sono stare.
Fuori dell'aula sulla strada
ma in mezzo al fuori anche fuori di là
ho chiesto al meglio della mia faccia
una polemica di dignità
tante le grinte, le ghigne, i musi,
vagli a spiegare che è primavera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera.
Tante le grinte, le ghigne, i musi,
poche le facce, tra loro lei,
si sta chiedendo tutto in un giorno
si suggerisce, ci giurerei
quel che dirà di me alla gente
quel che dirà ve lo dico io
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio.
Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.
E adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual'è il crimine giusto
per non passare da criminali.
Ci hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame.
Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
abbiamo deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete lo stesso coinvolti.
Per quanto voi vi crediate assolti
siete lo stesso coinvolti.”
[De Andrè, Nella mia ora di libertà]
Non credo serva aggiungere nulla. Le parole del testo raccontano di un uomo arrestato ingiustamente, imprigionato ingiustamente, a cui uomini e donne di tribunale tolgono la primavera. Non credo al destino, ma questa canzone, quel giovane bardo, l’aveva rubata alla mia vita… ed io di strada ne ho fatta tanta, da quella ginnastica di obbedienza a cui ero avvezza… il senso della violenza, quello fino ad allora ancora mancava alla mia vita, ma la prigione – dannata prigione! – ha il potere di corrodere anche il cuore più puro.
Uscii di prigione dopo qualche anno. In quegli tempo immobile avevo imparato cos’era la legge di natura, avevo imparato che il forte si approfitta del debole e che era normale tra gli uomini essere forti coi deboli, deboli coi forti. Entrai in prigione giovane spensierata e piena di speranze, ne uscii disgustata dal genere umano. Fu questo mio disgusto che mi portò a preferire la compagnia dei libri e degli animali, e che mi portò a vivere come questi, nei boschi.
Passarono altri anni prima che mi stufai della solitudine, prima che mi decisi ad affrontare l’avventura della mia vita. Furono anni di studio e di lunghe riflessioni. Studiai l’arcano mondo della magia e insieme il vivace mondo degli animali. Arrivai a far crepitare le mie dita e incenerire una corteccia da dieci passi e a saper distinguere un passero venato da un tordo biancobecco. Ma non arrivai mai a capire perché e per divertire chi noi siamo qui.
La mia magia è giunta al termine. Ringrazio di nuovo i vostri pazienti occhi. Vi lascio con una mia riflessione, segnata a margine di un testo di filosofia che lessi ormai parecchi anni fa. Ancora grazie.
I miei studi mi hanno insegnato
che per giocare
bisogna conoscere le regole del gioco.
E che tutto è un gioco.
Alcuni creano regole, altri giocano…
è un gioco di ruoli in cui vivere è difficile
e morire è impensabile.
Commenta