Come è stato chiaro ai fisici che un corpo in quiete non si mette in moto da solo, molto prima del fatto che un corpo in moto conserva la sua velocità, così anche la nozione della non-creabilita dell'energia è molto più vecchia di quella della sua indistruttibilità. La convinzione, che sia impossibile in natura che una forza nasca dal nulla, trovò la sua espressione nel principio, derivato dall'idea della compensazione, dell'impossibilita di un perpetuum mobile o di un moto perdurante in eterno nella natura.
Che un tale moto non possa esserci, era stato, invero, affermato da qualche studioso già all'inizio dell'evo moderno, ma essi lo insegnavano non in connessione col principio dell'energia bensì piuttosto in contrasto con esso. Non la non-creabilità della forza, bensì l'impossibilità della sua conservazione era l'idea dominante di questa teoria formulata nei secoli XV e XVI particolarmente da Leonardo da Vinci e da Gerolamo Cardano[1]. Essa si rifà ad una visuale diffusa già nell'antichità e sostenuta particolarmente da Ipparco e da Erone, secondo la quale non solo l'insorgere ma anche il proseguire di un movimento "violento" presuppone l'attività di una forza che, an'atto della transizione dalla quiete, è impressa nel corpo ma che durante il movimento viene consumata sempre di più[2]. Quindi, secondo questa teoria, ogni movimento, a meno che non sia disponibile una riserva infinita di forza, dovrebbe rimanere limitato nel tempo.
Naturalmente si potè comunque parlare di un'esatta cognizione del principio solo quando fu eliminata la sua contraddizione con la legge d'inerzia, e si riconobbe che ogni moto reale deve, non a dispetto bensì proprio in conseguenza del potere di persistenza, avere presto un termine. I fisici dovettero dapprima chiarirsi come non è invero richiesta alcuna forza per la conservazione di uno stato di movimento, quanto piuttosto per la compensazione delle consistenti perdite di moto causate dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, sicché dunque in realtà - in antitesi colla teoria - un moto perdurante in eterno sarebbe effettivamente equivalente ad una generazione infinita di forza. Dal momento quindi che è del tutto uguale che si parli di un moto reale, oppure di uno teorico, senza attriti, legato ad effetti di altro genere, si è successivamente collegata all'immagine di un "moto perpetuo" anche l'idea di un moto che non solo si conserva, ma per di più è in grado di esibire una prestazione di altro genere.
Come primo fisico che esattamente riconobbe ed insegnò l'impossibilità di un perpetuum mobile si suole spesso indicare Simon Stevin[3]. Questa opinione sembra comunque erronea e sostanzialmente determinata solo dal fatto che le enunciazioni di Stevin, se si fa astrazione dal loro contesto, secondo il tenore delle parole concordano esattamente col principio, mentre tuttavia il loro senso è completamente diverso. Nell'opera principale di Stevin si dice infatti ad un certo punto: "essi effettuerebbero un movimento continuativo ed eterno, il che è falso"[4] ; ed in un altro punto dice Stevin: "Il fluido eseguirebbe un movimento perpetuo, il che sarebbe assurdo"[5]. Queste asserzioni rappresentano comunque la conclusione di una serie di riflessioni, che suonerebbe all'incirca così: se un sistema di particelle dotate di massa è costituito in modo tale che per ogni possibile movimento le singole parti del sistema possano soltanto scambiarsi fra loro di posto, per cui lo stesso sistema, per ognuno di tali movimenti, mantiene inalterata la propria configurazione[6], allora un tale sistema deve trovarsi continuamente in equilibrio. Infatti se non ci fosse l'equilibrio, allora nel sistema dovrebbe intervenire un movimento. Ma siccome questo non sarebbe in grado di alterare minimamente le condizioni esistenti, con il che anche la causa stessa del movimento rimarrebbe continuamente uguale a se stessa senza alcuna variazione, allora un tale movimento, una volta iniziato, potrebbe non interrompersi più. Ma sarebbe completamente assurdo supporre che un movimento così senza meta né scopo avesse a durare eternamente[7]. Tuttavia, queste considerazioni non hanno proprio niente a che fare con l'impossibilità della generazione di una forza. Al contrario, dal punto di vista della legge dell'energia non ci sarebbe proprio nulla da obiettare contro un siffatto moto perpetuo il quale, come di solito per i problemi di statica e dinamica, sarebbe da pensarsi senza attrito. Un moto eterno sarebbe adirittura una conseguenza necessaria, nel caso che il sistema non si trovasse in equilibrio; che l'equilibrio ci sia effettivamente, è ancora da dimostrare, quindi non può essere utilizzato come un presupposto.
La convinzione dell'impossibilità di una creazione della forza s'incontra in forma chiara solo presso Huygens e Leibniz. Huygens fonda su questa impossibilità un principio molto importante per lo sviluppo dell'energetica. Secondo questo principio, un corpo in caduta dovrebbe possedere continuamente una velocità tale da poter risalire esattamente a quell'altezza dalla quale esso è caduto[8]. Questa ipotesi, secondo Huygens, che con ciò vuole eliminare ogni dubbio sulla sua esattezza, non vuol significare altro che i corpi pesanti non possono muoversi verso l'alto, cosa che nessuno ha mai messo in discussione[9]. Se gli inventori di nuove macchine - così egli prosegue - che inutilmente si affannano a realizzare un perpetuum mobile, fossero in grado di fare un uso esatto del principio, essi capirebbero facilmente il loro errore ed ammetterebbero che una realizzazione delle loro aspirazioni è del tutto impossibile per via meccanica[10].
Leibniz, nella sua Dinamica, presenta l'impossibilità di un moto perpetuo come un assioma[11]. A questo egli fa riferimento in molti casi per fare apparire più plausibile il suo principio dell'uguaglianza tra causa ed effetto, oppure la sua ipotesi della conservazione dell'energia[12], e lo usa pure ripetutamente per dimostrare l'esattezza delle sue vedute circa la misura delle forze[13].
Anche nei tempi successivi i fisici tentarono in molti modi di dimostrare l'impossibilità di un perpetuum mobile. Così Nollet allude al contrasto che esisterebbe tra un tale dispositivo e la legge d'inerzia quale primo assioma del moto[14]. Maupertuis indica, in una delle sue lettere, che tutto il problema dovrebbe limitarsi alla ricerca della possibilità di prolungare all'infinito la durata di un sistema di moti, mediante l'inerzia e la gravità[15]. Ma ciò si potrebbe raggiungere se i corpi in questo caso utilizzati fossero completamente elastici ed inoltre se tutti i movimenti avvenissero in un vuoto assoluto, dal momento che, altrimenti, la forza che le parti della macchina, per il loro attrito, cederebbero all'aria, dovrebbe considerarsi perduta[16].
Dunque, nonostante che l'impossibilità di un "moto eterno" appaia a molti fisici come del tutto evidente, per taluno addirittura così evidente da non richiedere alcuna dimostrazione, non era tuttavia piccolo il numero degli inventori protesi a realizzare un motore perpetuo e con esso una sorgente inesauribile di forza[17]. Questi inutili sforzi trovarono una conclusione formale, e quindi una conferma ufficiale del principio dell'impossibilità del moto perpetuo, solo nell'anno 1775. Infatti in quell'anno l'Accademia di Parigi decise di non accettare più in futuro sia i tentativi di soluzione del problema della duplicazione del cubo, della trisezione dell'angolo e della quadratura del cerchio, che essa manifestamente considerava senza alcuno scopo, sia progetti di macchine qualificate come perpetuum mobile 18.
In quanto, anche se l'effetto della forza motrice così è detto nella motivazione che l'Accademia ha dato alla sua decisione - non fosse, coll'andare del tempo, distrutto dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, la forza, comunque, potrebbe produrre soltanto un effetto uguale alla causa. Se dunque l'effetto di una forza finita dovesse durare eternamente, allora pure l'azione in un tempo finito dovrebbe essere infinitamente piccola. Quindi anche se un corpo, qualora si prescinda dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, potesse conservare di continuo il moto che gli è stato impresso, esso lo potrebbe solo se non esercitasse azioni su nessun altro corpo. Tale movimento eterno, possibile unicamente in teoria, ma che non potrebbe mai aver luogo nella realtà, non avrebbe senso per gli scopi che si prefiggono gli inventori di [macchine] per moti perpetui [19].
Anche se nei tempi successivi non si sarebbero dovuti quasi più sollevare dubbi sull'impossibilità di un "moto perdurante in eterno" - almeno dal lato scientifico - tuttavia passò ancora molto tempo prima che il principio acquistasse validità indiscussa anche in altri campi oltre quello meccanico. Il primo esempio, nel quale il principio dell'esclusione del perpetuum mobile trova applicazione oltre l'ambito della meccanica, è offerto dalle Considerazioni sulla forza motrice del calore (1824) di Sadi Carnot. In questo lavoro Carnot mostra, attraverso una dimostrazione indiretta, che il processo ciclico termodinamico da lui considerato dovrebbe essere indipendente dalla sostanza contenente il calore. Egli dimostra infatti come, nel caso in cui una tale dipendenza esistesse, sarebbe possibile una creazione illimitata di forza motrice senza un consumo di calore o di un qualche agente di altro genere. Una tale ipotesi sarebbe, come fa rilevare Carnot[20], completamente in disaccordo con le leggi della meccanica e di una ragionevole fisica, e perciò del tutto inammissibile[21].
Che un tale moto non possa esserci, era stato, invero, affermato da qualche studioso già all'inizio dell'evo moderno, ma essi lo insegnavano non in connessione col principio dell'energia bensì piuttosto in contrasto con esso. Non la non-creabilità della forza, bensì l'impossibilità della sua conservazione era l'idea dominante di questa teoria formulata nei secoli XV e XVI particolarmente da Leonardo da Vinci e da Gerolamo Cardano[1]. Essa si rifà ad una visuale diffusa già nell'antichità e sostenuta particolarmente da Ipparco e da Erone, secondo la quale non solo l'insorgere ma anche il proseguire di un movimento "violento" presuppone l'attività di una forza che, an'atto della transizione dalla quiete, è impressa nel corpo ma che durante il movimento viene consumata sempre di più[2]. Quindi, secondo questa teoria, ogni movimento, a meno che non sia disponibile una riserva infinita di forza, dovrebbe rimanere limitato nel tempo.
Naturalmente si potè comunque parlare di un'esatta cognizione del principio solo quando fu eliminata la sua contraddizione con la legge d'inerzia, e si riconobbe che ogni moto reale deve, non a dispetto bensì proprio in conseguenza del potere di persistenza, avere presto un termine. I fisici dovettero dapprima chiarirsi come non è invero richiesta alcuna forza per la conservazione di uno stato di movimento, quanto piuttosto per la compensazione delle consistenti perdite di moto causate dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, sicché dunque in realtà - in antitesi colla teoria - un moto perdurante in eterno sarebbe effettivamente equivalente ad una generazione infinita di forza. Dal momento quindi che è del tutto uguale che si parli di un moto reale, oppure di uno teorico, senza attriti, legato ad effetti di altro genere, si è successivamente collegata all'immagine di un "moto perpetuo" anche l'idea di un moto che non solo si conserva, ma per di più è in grado di esibire una prestazione di altro genere.
Come primo fisico che esattamente riconobbe ed insegnò l'impossibilità di un perpetuum mobile si suole spesso indicare Simon Stevin[3]. Questa opinione sembra comunque erronea e sostanzialmente determinata solo dal fatto che le enunciazioni di Stevin, se si fa astrazione dal loro contesto, secondo il tenore delle parole concordano esattamente col principio, mentre tuttavia il loro senso è completamente diverso. Nell'opera principale di Stevin si dice infatti ad un certo punto: "essi effettuerebbero un movimento continuativo ed eterno, il che è falso"[4] ; ed in un altro punto dice Stevin: "Il fluido eseguirebbe un movimento perpetuo, il che sarebbe assurdo"[5]. Queste asserzioni rappresentano comunque la conclusione di una serie di riflessioni, che suonerebbe all'incirca così: se un sistema di particelle dotate di massa è costituito in modo tale che per ogni possibile movimento le singole parti del sistema possano soltanto scambiarsi fra loro di posto, per cui lo stesso sistema, per ognuno di tali movimenti, mantiene inalterata la propria configurazione[6], allora un tale sistema deve trovarsi continuamente in equilibrio. Infatti se non ci fosse l'equilibrio, allora nel sistema dovrebbe intervenire un movimento. Ma siccome questo non sarebbe in grado di alterare minimamente le condizioni esistenti, con il che anche la causa stessa del movimento rimarrebbe continuamente uguale a se stessa senza alcuna variazione, allora un tale movimento, una volta iniziato, potrebbe non interrompersi più. Ma sarebbe completamente assurdo supporre che un movimento così senza meta né scopo avesse a durare eternamente[7]. Tuttavia, queste considerazioni non hanno proprio niente a che fare con l'impossibilità della generazione di una forza. Al contrario, dal punto di vista della legge dell'energia non ci sarebbe proprio nulla da obiettare contro un siffatto moto perpetuo il quale, come di solito per i problemi di statica e dinamica, sarebbe da pensarsi senza attrito. Un moto eterno sarebbe adirittura una conseguenza necessaria, nel caso che il sistema non si trovasse in equilibrio; che l'equilibrio ci sia effettivamente, è ancora da dimostrare, quindi non può essere utilizzato come un presupposto.
La convinzione dell'impossibilità di una creazione della forza s'incontra in forma chiara solo presso Huygens e Leibniz. Huygens fonda su questa impossibilità un principio molto importante per lo sviluppo dell'energetica. Secondo questo principio, un corpo in caduta dovrebbe possedere continuamente una velocità tale da poter risalire esattamente a quell'altezza dalla quale esso è caduto[8]. Questa ipotesi, secondo Huygens, che con ciò vuole eliminare ogni dubbio sulla sua esattezza, non vuol significare altro che i corpi pesanti non possono muoversi verso l'alto, cosa che nessuno ha mai messo in discussione[9]. Se gli inventori di nuove macchine - così egli prosegue - che inutilmente si affannano a realizzare un perpetuum mobile, fossero in grado di fare un uso esatto del principio, essi capirebbero facilmente il loro errore ed ammetterebbero che una realizzazione delle loro aspirazioni è del tutto impossibile per via meccanica[10].
Leibniz, nella sua Dinamica, presenta l'impossibilità di un moto perpetuo come un assioma[11]. A questo egli fa riferimento in molti casi per fare apparire più plausibile il suo principio dell'uguaglianza tra causa ed effetto, oppure la sua ipotesi della conservazione dell'energia[12], e lo usa pure ripetutamente per dimostrare l'esattezza delle sue vedute circa la misura delle forze[13].
Anche nei tempi successivi i fisici tentarono in molti modi di dimostrare l'impossibilità di un perpetuum mobile. Così Nollet allude al contrasto che esisterebbe tra un tale dispositivo e la legge d'inerzia quale primo assioma del moto[14]. Maupertuis indica, in una delle sue lettere, che tutto il problema dovrebbe limitarsi alla ricerca della possibilità di prolungare all'infinito la durata di un sistema di moti, mediante l'inerzia e la gravità[15]. Ma ciò si potrebbe raggiungere se i corpi in questo caso utilizzati fossero completamente elastici ed inoltre se tutti i movimenti avvenissero in un vuoto assoluto, dal momento che, altrimenti, la forza che le parti della macchina, per il loro attrito, cederebbero all'aria, dovrebbe considerarsi perduta[16].
Dunque, nonostante che l'impossibilità di un "moto eterno" appaia a molti fisici come del tutto evidente, per taluno addirittura così evidente da non richiedere alcuna dimostrazione, non era tuttavia piccolo il numero degli inventori protesi a realizzare un motore perpetuo e con esso una sorgente inesauribile di forza[17]. Questi inutili sforzi trovarono una conclusione formale, e quindi una conferma ufficiale del principio dell'impossibilità del moto perpetuo, solo nell'anno 1775. Infatti in quell'anno l'Accademia di Parigi decise di non accettare più in futuro sia i tentativi di soluzione del problema della duplicazione del cubo, della trisezione dell'angolo e della quadratura del cerchio, che essa manifestamente considerava senza alcuno scopo, sia progetti di macchine qualificate come perpetuum mobile 18.
In quanto, anche se l'effetto della forza motrice così è detto nella motivazione che l'Accademia ha dato alla sua decisione - non fosse, coll'andare del tempo, distrutto dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, la forza, comunque, potrebbe produrre soltanto un effetto uguale alla causa. Se dunque l'effetto di una forza finita dovesse durare eternamente, allora pure l'azione in un tempo finito dovrebbe essere infinitamente piccola. Quindi anche se un corpo, qualora si prescinda dall'attrito e dalla resistenza del mezzo, potesse conservare di continuo il moto che gli è stato impresso, esso lo potrebbe solo se non esercitasse azioni su nessun altro corpo. Tale movimento eterno, possibile unicamente in teoria, ma che non potrebbe mai aver luogo nella realtà, non avrebbe senso per gli scopi che si prefiggono gli inventori di [macchine] per moti perpetui [19].
Anche se nei tempi successivi non si sarebbero dovuti quasi più sollevare dubbi sull'impossibilità di un "moto perdurante in eterno" - almeno dal lato scientifico - tuttavia passò ancora molto tempo prima che il principio acquistasse validità indiscussa anche in altri campi oltre quello meccanico. Il primo esempio, nel quale il principio dell'esclusione del perpetuum mobile trova applicazione oltre l'ambito della meccanica, è offerto dalle Considerazioni sulla forza motrice del calore (1824) di Sadi Carnot. In questo lavoro Carnot mostra, attraverso una dimostrazione indiretta, che il processo ciclico termodinamico da lui considerato dovrebbe essere indipendente dalla sostanza contenente il calore. Egli dimostra infatti come, nel caso in cui una tale dipendenza esistesse, sarebbe possibile una creazione illimitata di forza motrice senza un consumo di calore o di un qualche agente di altro genere. Una tale ipotesi sarebbe, come fa rilevare Carnot[20], completamente in disaccordo con le leggi della meccanica e di una ragionevole fisica, e perciò del tutto inammissibile[21].
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