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  • #16
    EXTREME - AN ACCIDENTAL COLLICATION OF ATOMS? - THE BEST OF (1998)

    1. Decadence Dance
    2. Rest in Peace
    3. Kid Ego
    4. Get the Funk Out
    5. Tragic Comic
    6. Hip Today
    7. Stop the World
    8. More Than Words
    9. Cupid's Dead
    10. Leave Me Alone
    11. Play With Me
    12. Hole Hearted
    13. Am I Ever Gonna Change



    Patrick Badger - Bass, vocals
    Nuno Bettencourt - Guitars, vocals, piano, keys
    Gary Cherone - Lead vocals
    Paul Geary - Drums
    Mike Mangini - Drums

    Fra i gruppi che cavalcarono la scena hard rock negli anni 90, sicuramente gli Extreme si proposero come una delle bands piu eclettiche e stravaganti. Il tutto dovuto soprattutto alla geniale mente del chitarrista Nuno Bettencourt, malato di funky e blues, e capace di trasportare entrambi nelle melodie degli Extreme. A coronamento di una discreta carriera e di un'oramai prossimo scioglimento (Gary Cherone se ne stava andando dai Van Halen), questo The Best fu piu un obbligo discografico che un tributo verso i fans delusi dal loro scioglimento.
    Il set che compone il cd e' ottimo, e abbraccia tutta la loro discografia, a partire dallo scoppiettante omonimo Extreme (1989) fino al poco fortunato Waiting for the Punchline (1995).
    Certo manca qualcuno dei grandi capolavori della band. In particolare e' imperdonabile l'assenza di It('s a Monster) e Warheads. Ma i grandi classici, dalla radiofonica More Than Words fino a Rest in Peace, passando da Get the Funk Out e Tragic Comic, ci sono tutti.

    L'apertura tocca a Decadence Dance, il pezzo che, assieme a M.T.W. porto' gli Extreme alla ribalta. E si respirano subito atmosfere funky dopo l'intro "apocalittico". Bettencourt porta tutta la sua maestria in questo brano, che passa con disinvoltura dal funky all'hard rock piu canonico. Grande la prova di Gary alla voce, un cantante davvero dotato che sa tirare sempre fuori il meglio dalla propria voce.
    Il secondo pezzo vede un'altro indiscusso classico con Rest in Peace, dove spicca il coro del gruppo e il richiamo Hendrixiano nell'assolo. Nuno ha d'altra parte sempre amato andare a pescare qua e la e a rivedere a modo suo parti famose di altri musicisti. Il finale acustico mostra ancora la grande capacita' di arrangiare i cori della band.
    Si continua tornando indietro all'esordio, con l'allegra Kid Ego, pezzo rock piu canonico, dal grande refrain, che mette una grande allegria. Molto prezioso e' l'oscuro lavoro del duo Badger-Geary.
    Si va avanti, ed ecco un'altro masterpiece della band, con Get the Funk Out. Lo dice il titolo stesso, questo e' un pezzo spudoratamente funky, dove ancora una volta Nuno si lancia in folli giri di chitarra, seguito a meraviglia dalla sezione ritmica. Chi non la ha mai cantata a squarciagola? "If you don't like what you see here, get the funk out!"
    Arriva ora uno dei miei pezzi preferiti, Tragic Comic. Anche in acustica gli Extreme si dimostrano egregi musicisti, e la canzone e' pervasa da un'ironia a tratti malinconica. Un'altro caposaldo. Ma per apprezzarla in pieno bisognerebbe vedere il video in bianco e nero, in perfetto stile "Tempi Moderni" di Charlie Chaplin.
    Ecco che arriva il momento di Waiting for thr Punchline, con Hip Today. Devo essere sincero, non amo molto questo disco. Gli Extreme sporcano il loro suono a discapito di una maggiore energia, ma il risultato non e' che porti loro poi molti benefici. Andiamo oltre.
    Si torna a III Sides to Every Story, con un'altro dei miei preferiti, Stop the World, una ballad bellissima, ancora guidata dai cori della band e dalle chitarre trascinanti di Nuno. LA canzone e' canonica fino al break che porta alla chiusura, dopo l'assolo. Qua tutti danno grande prova di se, e si deve parlare di vero e proprio break, perche la canzone si stoppa davvero, per ripartire improvvisamente. Bellissimi gli assolini di basso e batteria. E grande la capacita' di trasformare con una semplice trovata una ballad normale in un'altro pezzo da non dimenticare.
    Arriva poi la ballad vera e propria, quella a cui pensano tutti quando si nominano gli Extreme, ovvero More than Words. Ma di questa non ve ne parlo, la conoscete tutti a memoria.
    Tocca poi a Cupid's Dead, altro pezzo che a mio modo di vedere poteva essere risparmiato per lasciare spazio ad altri. Ma e' comunque buono. Al suo posto ci avrei messo Warheads, comunque.
    C'e' ancora spazio per Leave Me Alone, da W.f.t.P., e, a seguire, per Play With Me, che si apre con la chitarristica interpretazione di Paganini (credo, non sono esperto di musica classica) da parte di Nuno. Questo e' rock n'roll classico, allegro e trascinante.
    E poi via, con la ballad acustica Hole Hearted, in cui Nuno si cimenta con sonorita' country.
    La chiusura e' per Am I Ever Gonna Change, ancora da III Sides, un'altro dei miei brani preferiti, carico ed energico.

    La conclusione: un the Best e' sempre un bel disco, ma qua manca qualcosa. Certo, bisognava toccare tutti i lavori degli Extreme, ma a mio modo di vedere un po di spazio per due o tre tracce in piu si poteva trovare. Peccato, perche un 95 si trasforma in un 85. Per chi non li conosce, comunque, resta senz'altro un bel modo per avvicinarvisi al gruppo.....

    Voto:85/100

    Zender R. Velkyn
    He had a cloak of gold and eyes of fire
    And as he spoke I felt a deep desire
    To free the world of its fear and pain
    And help the people to feel free again
    Why don't we listen to the voices in our hearts
    Cause then I know we'd find, we're not so far apart
    Everybody's got to be happy, everyone should sing
    For we know the joy of life, the peace that love can bring
    URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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    • #17
      Artista: Virgin Steele
      Album: Invictus
      Anno: 1998
      Genere: Epic Metal






      Line-up:
      David Defeis - Voce e tastiere
      Edward Pursino - chitarre
      Rob Demartino - basso
      Frank Gilchriest - batteria




      Terzo episodio della saga iniziata con The Marriage Of Heaven And Hell, che vede rispetto ai due predecessori, un suono molto piu ruvido e aggressivo, con una netta limitazione delle parti suonate da tastiere o pianoforte, mantenendo comunque i classici intermezzi strumentali, tipici della band di New York.
      Di norma un sequel, nn raggiunge mai il livello del suo predecessore, ma questa e' la classica eccezione che conferma la regola, infatti tutti e tre i dischi appartenenti allo stesso concept, si mantengono su livelli qualitativi eccellenti.
      Tecnicamente la band raggiunge quasi la perfezione, la fase ritmica e' affidata all'eccellente basso di Demartino e alla batteria di Gilchriest, dal suono molto vario, ottenuto alternando ritmi potenti e veloci, a ritmi piu lenti e melodici, il riffing di Ed Pursino e' notevolmente migliorato rispetto ai cd precedenti, mentre in fase solista, rimane agli altissimi livelli delle uscite anteriori, intrecciandosi splendidamente con le tastiere di Defeis, in fase di songwriting c'e' l'ennessima grande prova del frontman David Defeis, che inoltre conferma le sue grandi qualita' come cantante, grazie a una prova potente e melodica al tempo stesso.
      Il cd inizia con The Blood Of Vengeance un introduzione narrata, che crea subito una grande atmosfera, la prima vera musica e' Invictus, brano che come gia accennato, e' molto piu' aggressivo rispetto ai precedenti lavori dei Virgin Steele, a seguire l'epica Mind, Body, Spirit, che alterna i toni cupi del riffing a quelli piu alti del finale.
      La track successiva e' In The Arms Of The Death God, un intermezzo strumentale che ci introduce a Through Blood And Fire, dal riff e dal ritornello che ti entrano in testa fin dal primo ascolto, e che vi troverete a cantare senza neanche rendervene conto, con una grande prova di Pursino che si esibisce in due assoli veramente molto belli, si arriva cosi' a quello che probabilmente e' il miglior episodio dell'opera; Sword of the Gods, caratterizzata da un inizio maestoso e epico, dal riffing potente e ossessivo di Pursino, e dall'ottima prova di Defeis sia con la tastiera che, soprattutto dietro il microfono.
      La successiva, God Of Our Sorrows, e' una musica interamente suonata da Defeis al pianoforte, che ricorda vagamente il prog settantiano, segue Vow of Honour, che anticipa il chorus di Defiance, cantata nel classico stile di falsetto di Defeis, quindi come anticipato segue Defiance, dove si distinguono un grande riff di Pursino e un ritornello accattivante e orecchiabile, la seguente, Dust From the Burning, e' la musica piu aggressiva dell'intero cd, con un ottima prova di Gilchriest, che si esibisce in un drumming solido, potente e veloce, l'aggressivita' e la potenza vengono spezzate dalla musica successiva, Amaranth, brano strumentale molto dolce e calmo, la successiva A Whisper Of Death, viene introdotta da un epico arpeggio, per poi sfociare in tutta la sua potenza con un ottima prova di Demartino e' un grandioso assolo di Pursino.
      Leggermente inferiore e' la successiva Dominion Day, con un Defeis che mostra tutte le sue qualita' canore, mutando piu' volte il timbro vocale, si prosegue con Shadow of Fear, musica dall'inizio oscuro e maligno, che diventa sempre piu epica ogni minuto che passa, con delle buone trovate di Defeis alla tastiera, a seguire il riarrangiamento dei temi dei due cd precedenti, chiamata appunto Theme from 'The Marriage of Heaven and Hell', il cd si conclude con la lunghissima Veni, Vidi, Vici, con un ottima prova di tutta la band che finisce con applausi e acclamazioni, per sottolineare il trionfo degli uomini sugli Dei.
      C'e' chi li definisce la versione colta dei Manowar, chi quella effemminata, nn stateli ad ascoltare e procuratevi immediatamente questo cd, per niente inferiore ai lavori precedenti, sicuramente uno dei capisaldi dell'Epic Metal.

      Voto: 96/100

      Track List:
      The Blood Of Vengeance
      Invictus
      Mind, Body, Spirit
      In The Arms Of The Death God
      Through Blood And Fire
      Sword Of The Gods
      God Of Our Sorrows
      Vow Of Honour
      Defiance
      Dust From The Burning
      Amaranth
      A Whisper Of Death
      Dominion Day
      A Shadow Of Fear
      Theme From "The Marriage.."
      Veni, Vidi, Vici

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      • #18
        A TRIBUTE TO THE BEAST - A.A.V.V. (2002)

        1. Steel Prophet - The Ides of March/Purgatory
        2. Children of Bodom - Aces High
        3. Rage - The trooper
        4. Cradle of Filth - Hallowed Be Thy Name
        5. Grave Digger - Running Free
        6. Burden of Grief - Prowler
        7. Sonata Arctica - Die With Your Boots On
        8. Therion -Children of the Damned
        9. Iced Earth - Transylvania
        10. Opeth - Remember Tomorrow
        11. Sinergy - The Number of the Beast
        12. Disbelief - Stranger in a Strange Land
        13. Tierra Santa - Flight of Icarus
        14. Dark Tranquillity - 22 Acacia Avenue
        15. Six Feet Under - Wrathchild
        16. Darkane - Powerslave



        Fra le miriadi di tributi che sono stati dedicati agli Iron Maiden, ho sempre ritenuto questo della Nuclear Blast uno dei piu riusciti. Soprattutto perche lo compongono gruppi di punta della scena metal moderna, passando dal death al black, dal power al thrash. E sono sempre stato interessato a questo tipo di progetti, per vedere come le varie bands ripropongono delle canzoni ormai sacre nel panorama metal. Difficilmente una band odierna non ha avuto i Maiden come punto di riferimento, o almeno come fonte di ispirazione. E molte di queste bands si cimentano ottimamente con le canzoni di Harris & Co. mentre altri, ahime, ci riescono meno bene.

        Si comincia con gli americani Steel Prophet, che propongono la loro Purgatory preceduta dall'intro di Hides of March. La scuola power metal senz'altro li facilita nel riproporre il vecchio classico che risulta potente e incisivo. Ottimo inizio per questo dischetto.
        Si continua con il power di matrice black (o viceversa?) dei Children of Bodom, che riesumano la gloriosa Aces High. Alexi se la cava bene con le parti vocali, e il pezzo viaggia potente sorretto dalle tastiere che contraddistinguono la musica dei bambini del lago Bodom. Interessante l'assolo, dove chitarre e tastiere spadroneggiano.
        Tocca poi ai Rage e alla loro Prowler. Anche loro facilitati dal fatto che la scuola e' piu o meno la stessa, propongono una versione senza fronzoli ne invenzioni particolari, ma compatta e granitica.
        Arriva poi uno dei pezzi piu stravolti del cd, Hallowed Be Thy Name da parte dei Cradle of Filth. Notevole era la curiosita' riguardo a questo brano. Come ci si sarebbero avvicinati i C.o.F. che hanno un background totalmente differente?
        Inutile dire che il pezzo e' tutto un'altra cosa, in modo particolare nell'atmosferica prima parte, guidata dalle tastiere. La parte centrale del brano segue fedelmente l'originale, ma e' nel finale che i Cradle tirano fuori il loro lato black, per un risultato tutto sommato non male. Persino Dani sembra cantare discretamente il pezzo.
        Chris Bolthendhal e i suoi Grave Digger propongono una Running Free nel pieno stile del gruppo.
        Il vocione di Chris trascina la canzone che non ha grandi picchi e segue fedelmente l'originale. Senza lode ne infamia.
        Prowler viene invece eseguita dai growls di Mike Huhmann e dai suoi Burden of Grief. Il gruppo melodic death teutonico sceglie pero' di tenere la linea melodica praticamente identica all'originale, per un pezzo che non si discosta molto da quello pubblicato originariamente, se non, appunto, per la voce.
        Die With Your Boots On spetta invece ai Sonata Arctica, che la rimodellano sulle loro melodie tutte chitarra-tastiere stravolgendo un po la canzone solo nel refrain. I ragazzi ci permettono pure di inserire una specie di coro epico dopo l'assolo. Insomma.....cosi cosi. Si capisce che non li amo, eh?
        Uno dei pezzi migliori del lotto e' invece quello dei Therion, che propongono Children of the Damned lasciando da parte per una volta le loro aperture verso la classica e la lirica. Il brano e' canonicissimo, ma risulta trascinante. Alla voce ottima la prova di Piotr Wawrzeniuk, batterista della band in quel periodo.
        Gli Iced Earth propongono invece la strumentale Transylvania. Bella, ben suonata, non si puo' dire nulla, ma permettetemi un'appunto. Ritengo un'offesa che si sia optato per uno strumentale lasciando da parte il devastante vocione di Matt Barlow. E dire che di covers dei Maiden gli Iced Earth ne hanno fatte altre....
        La cupa Remember Tomorrow spetta agli Opeth. Se avete presente l'ultimo periodo della band, ben potrete immaginarvi questa canzone. I growls di Mikael Akerfeldt vengono lasciati da parte per lasciare spazio ad un'esecuzione perfetta della band svedese. Ottima.
        C'e' un po di curiosita' anche con il brano successivo. Immaginare Kimberly Goss che canta le tracce di Bruce Dickinson mi lascia qualche dubbio. E invece la prova dei Sinergy con The Number of the Beast non e' affatto male, e Kimberly riesce a trovare la giusta via per eseguire uno dei pezzi sacri dei Maiden. Inutile dirlo, sugli scudi c'e' comunque sempre la chitarra di Alexi Laiho.
        Un po stravolta risulta anche Stranger in a Strange Land, da parte dei Disbelief. I tedeschi ci mettono comunque energia da vendere, e il risultato tutto sommato e' buono, anche se non e' eccelso. Vuoi perche non sono fra le mie bands perferite, vuoi perche nemmeno la canzone e' una dei miei picchi maideniani.
        Gli spagnoli Tierra Santa stravolgono invece Flight of Icarus, aprendola con un avvio lento. La canzone viaggia su ritmi bassi fino all'assolo, e li torna a livelli canonici piu consoni al power metal della band. Buona comunque, sia perche e' originale, sia perche guidata dall'ottima voce di Angel.
        Arriva un'altro dei capolavori del cd. Ok, sono di parte, ma questa 22 Acacia Avenue dei Dark Tranquillity e' devastante. Stanne massacra la canzone dei Maiden per reinterpretarla con la sua voce distruttiva. La linea segue comunque quella originale, senza mai spostarvisi troppo. Solito egregio lavoro di Jivarp, pulito come sempre.
        La penultima traccia spetta ai Six Feet Under, che propongono un'altro dei classici dei Maiden, soprattutto dal vivo, Wrathchild. Chi conosce la voce di Chris Barnes puo' immaginarsi come la canzone possa risultare strana. Pero' e' carina, e si fa ascoltare piacevolmente. E si notano poco le caratteristiche da death metal band della band di Tampa.
        Chiusura per i Darkane, con Powerslave. Nel bel mezzo della canzone c'e' una furiosa accelerazione molto piacevole. Tutto sommato un buon pezzo anche questo.

        Che dire, un disco discreto, che conta al suo interno bands di prima grandezza del panorama metal odierno. Molti degli artisti la hanno totalmente reinterpretata a propria immagine e somiglianza (come i C.o.F.), altri si sono stravolti per seguire fedelmente la canzone, ma il disco e' bello e si ascolta senza passi falsi particolari. Di certo questa e' una di quelle mosse commerciali delle case discografiche, ma di certo per una band deve essere stimolante confrontarsi con le canzoni di mostri sacri come i Maiden. Per i patiti, comunque. Sia dei Maiden sia dei gruppi compresi nel cd. Ma nulla di trascendentale, solo un cd per ammazzare il tempo nell'attesa che esca il cd che attendete da un'anno.....

        voto: 75/100

        Zender R. Velkyn
        Ultima modifica di aquilaccia; 07-05-2004, 21:54.
        He had a cloak of gold and eyes of fire
        And as he spoke I felt a deep desire
        To free the world of its fear and pain
        And help the people to feel free again
        Why don't we listen to the voices in our hearts
        Cause then I know we'd find, we're not so far apart
        Everybody's got to be happy, everyone should sing
        For we know the joy of life, the peace that love can bring
        URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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        • #19
          TESLA - INTO THE NOW (2004)

          1. Into the Now
          2. Look @ Me
          3. What a Shame
          4. Heaven Nine Eleven
          5. Words Can't Explain
          6. Caught in a Dream
          7. Miles Away
          8. Mighty Mouse
          9. Got No Glory
          10. Come to Me
          11. Recognize
          12. Only You



          Jeff Keith - Vocals
          Tommy Skeoch - Guitars
          Frank Hannon - Guitars
          Brian Weath - Bass
          Troy Luccketta - Drums


          Permettetemi.
          In un mondo pervaso da sonorita' che arrivano all'assurdo, da contaminazioni nu-metal ovunque, da schifezze che vogliono farci passare per l'ultima moda metal, un raggio di sole torna a farsi vivo nel buio panorama della musica estrema.
          Per me questa e' una delle cose piu belle di questi primi 5 mesi del 2004.
          La band che piu per me ha significato la parola "rock n' roll" torna sulla scena, coi medesimi musicisti, il medesimo carisma, la medesima carica, il medesimo stile. Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo una sola volta, di spalla agli Scorpions, e me la ricordo come fosse ieri. Jeff, Tommy, Brian, Troy, Frank, grazie per essere tornati. Ci eravate mancati. Anni di giovinezza quasi dimenticati riaffiorano all'improvviso, quasi magicamente.


          Beh, certo, non ci si puo' aspettare che tutto sia esattamente identico a dove avevano lasciato, nel lontano 1994, con Bust a Nut, ma lo spirito e la voglia e' rimasta intatta. Dieci anni in piu sul groppone credo si sentano per tutti, ma i Tesla riescono egregiamente a non farli pesare, col loro hard rock esplosivo, anche se qua e la qualcosa di piu moderno si puo' trovare. Ma davvero, per me e' una piacevole sorpresa. Forse due ascolti per una recensione sono pochi, forse non saro' poi cosi obiettivo, ma sono molto felice del mio nuovo acquisto. D'altra parte ero stanco di riascoltarmi Time's Makin' Changes.

          La title track apre il lavoro energicamente, forse non nei loro soliti canoni. Le chitarre sono piu aggressive che in passato, usando anche suoni piu consoni ai tempi che viviamo, ma quando arriva la voce di Jeff capisco che poco e' cambiato. Sul muro sonoro di Brian e Troy Jeff si esprime come meglio sa fare. Che bello, sembra che 10 anni non siano mai passati. Buon inizio.
          Passiamo a Look @ Me. Il titolo strizza volutamente l'occhio alla quotidianita' in cui oramai quasi tutti vivono, ma il brano segue la scia dei bei tempi. Ancora chitarre pesanti, ed egregio lavoro di Troy, un'altro dei miei mentori assoluti. La miscela di melodia ed aggressivita' funziona ottimamente, e il pezzo e' piacevole e vario.Uhm, forse si poteva fare qualcosa di piu sugli assoli.
          What a Shame si apre con una batteria campionata e una chitarra acustica, per poi sfumare nei classici suoni Tesla. Song nello stile dei bei tempi, con la chitarra acustica a sorreggere il brano, come capitava in passato. Beh che dire, sembra davvero che per i Tesla 10 anni non siano mai passati. Tornano i coretti, altro loro marchio di qualita'.
          Heaven Nine Eleven e' invece decisamente un pezzo moderno. Non vorrei esagerare, ma in certi passaggi richiama addirittura ai Linkin Park, usando alcune delle campionature a loro care. Ma la classe e' classe, e ancora, dopo le note della chitarra acustica, il brano esplode in tutta la sua potenza. Bello, ma troppo modern-oriented.
          Ancora acustica in Words Can't Explain. E qua si torna davvero indietro, ai gloriosi tempi di canzoni come Steppin' Over o What You Give. Assomiglia molto in effetti a quest'ultima. Anche l'assolo riporta sugli altari Frank Hannon, che torna a far parlare la sua chitarra con uno dei suoi classici solos.
          E l'acustica ci accompagna ancora in Caught in a Dream. I Tesla non hanno perso il loro amore per l'unplugged, questo e' un dato di fatto. Forse questa e' la prima vera ballad del cd, visto che non porta accelerazioni o passaggi particolari. Solo una vecchia sana melodica canzone di hard rock americano. Ma in fondo i fans non volevano questo?
          Si ritorna rocciosi con Miles Away, canzone forse fin troppo aggressiva per quello a cui eravamo abituati, ma anche qua i classici elementi non mancano, a partire dal wah di Frank. Uno strano pezzo comunque, con chitarre davvero pesanti, che si frappongono a passaggi (ancora una volta) acustici. Fantastici i cori.
          E Mighty Mouse (topo potente.....vabbe') riporta alle atmosfere di Psychotic Supper, dimostrandosi piacevole. Puro hard rock americano, con forse qualche vago richiamo agli Skid Row dei tempi belli.
          Sulla stessa scia segue Got No Glory, ancora potente e cadenzata. Devo dire che ho molto apprezzato in tutto il cd il lavoro di Brian al basso, sempre presente e pulito, non un mostro di fantasia, ma un'ottimo comprimario.
          Si passa a Come to Me, altra ballad dal sapore di antico. Jeff e' fantastico nella sua espressivita', e il pezzo e' pervaso da quell'atmosfera country che anche i Bon Jovi riuscivano a trasmettere. Molto bello il ritornello, con il solito passaggio al distorto.
          L'ultima sfuriata prima del pezzo finale spetta a Recognize. Niente di devastante, per carita', altro pezzo duro alla Tesla, melodico e orecchiabile.
          E la chiusura e' infatti per Only You, interamente acustica. Nel loro vecchio solito stile.

          La conclusione e' positiva. non sapevo nulla del loro ritorno, ma direi che e' stato un gran bel fulmine a ciel sereno.
          Come da copione i Tesla sono un po costretti ad accostarsi alle sonorita' moderne, restando pero' ben saldi sulle loro basi di scuola anni 80. Non sara' certo un masterpiece, ma si fa ascoltare piacevolmente in tutta la sua durata. Bravi Tesla. Venite a trovarci in Italia.

          Voto:85/100

          Zender R. Velkyn
          He had a cloak of gold and eyes of fire
          And as he spoke I felt a deep desire
          To free the world of its fear and pain
          And help the people to feel free again
          Why don't we listen to the voices in our hearts
          Cause then I know we'd find, we're not so far apart
          Everybody's got to be happy, everyone should sing
          For we know the joy of life, the peace that love can bring
          URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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          • #20
            ANNIHILATOR - NEVER, NEVERLAND (1990)

            1. The Fun Palace
            2. Road To Ruin
            3. Sixes And Sevens
            4. Stonewall
            5. Never, Neverland
            6. Imperiled Eyes
            7. Kraft Dinner
            8. Phantasmagoria
            9. Reduced To Ash
            10. I Am In Command



            Coburn Pharr - Vocals
            Jeff Waters - Guitars, Bass
            Ray Hartmann - Drums

            Un anno dopo il loro ottimo debutto con "Alice in Hell", gli Annihilator capitanati dal genialoide Jeff Waters, risolti un paio di problemi di line-up, provano a bissare con questo Never, Neverland.
            Ciò che ne esce fuori è un album a mio parere ancora migliore del primo. La struttura delle varie canzoni si fa ancora più intricata, consolidando le basi di ciò che sarebbe divenuto poi il tipico sound degli Annihilator.
            La recensione traccia per traccia sarà difficile: è difficile inventarsi sempre parole nuove per definire un capolavoro.
            Si aprono le danze con The Fun Palace, con la quale ci addentriamo all'interno della mente (il palazzo) di un assassino, che è costretto dopo anni di distanza a confessare il suo crimine dagli incubi che lo tormentano. La voce di Pharr pare subito azzeccatissima. Dopo l'apertura costituita da una lenta ma trascinante cavalcata, iniziamo subito a renderci conto delle capacità di Jeff Waters, che gioca con le chitarre e le armonizzazioni, in un susseguirsi di riff ipnotici e assai poco lineari, qualche stop and go azzeccatissimo, ed un piccolo rallentamento prima dell'assolo azzeccatissimo, nel quale il buon Jeff ci infila anche una chitarra pulita che spezza ma non si slega dalla struttura del brano.
            Segue Road to Ruin, che parla di un incidente stradale. La canzone è un po' più veloce e immediata, senza per questo rinunciare a degli ottimi intrecci di chitarre, si nota particolarmente l'ottimo drumming di Hartmann, e spicca particolarmente l'assolo. Anche il basso, con il suo quasi costante "galoppare", fa bene il suo dovere.
            La successiva Sixes and Seven, espressione inglese che indica disordine e chaos, si apre con un arpeggio abbastanza "sinistro", per poi partire in quarta con riff al fulmicotone e coinvolgenti, e risulta particolarmente azzeccato il ritornello, che fa subito venire voglia di cantarlo. Accelerazioni improvvise poco prima dell'assolo, un altro particolarmente ben riuscito, quasi scanzonato.
            Arriviamo così a Stonewall, canzone che ispirata dal danno che l'uomo produce sull'ambiente, ed in particolare le grosse società che se ne fregano delle multe. Anche qua il ritornello è orecchiabilissimo, ma la struttura della canzone è più lineare. Il rallentamento a circa metà della canzone, introdotto da un arpeggio, fa spazio ad un assolo un po' più standard rispetto allo stile di Jeff Waters, ma comunque bello ed emozionante. La canzone poi ritorna gradatamente sul tema principale, per finire con un arpeggio e la voce di Pharr che ripete malinconica, in dissolvenza, "It's time to listen".
            Ora, a metà disco, parte la title-track, Never, Neverland. Introdotta da un malinconico arpeggio (che poi Jeff Waters riprenderà per molti dei suoi lavori più avanti nel tempo), narra di una giovane ragazza chiusa per anni in una stanza dalla nonna, che voleva "proteggerla" dalle tentazioni del male, rappresentate in questo caso dall'interesse verso il sesso opposto. L'unica compagna della ragazza è la bambola, Clare. Fortunatamente, viene salvata dalla polizia, e riesce a riprendere una vita normale. Le chitarre qui svolgono ottimamente il loro lavoro, sia sugli arpeggi intrecciati, che sul break centrale, aggressivo, che sfocia poi in una parte più melodica, per giungere alla conclusione.
            Si riparte poi con Imperiled Eyes, che ritorna su strutture più complesse e tempi più sostenuti. Ottima ed incisiva la voce di Pharr, e la canzone è un continuo susseguirsi di intricati riff e stop and go al limite dell'assurdo, che mettono in risalto tutte le capacità compositive di Jeff Waters. Gli improvvisi rallentamenti con tanto di arpeggi e le altrettanto improvvise accelerate non possono che lasciare stupito l'ascoltatore, rendendo la canzone la più complessa in assoluto dell'album. Ottima anche la sezione ritmica, sia il basso con le sue variazioni, che la batteria, che contribuisce pesantemente a dare dinamicità alla canzone.
            Segue Kraf Dinner, abbastanza lineare ed immediata, pensate che parla letteralmente di "maccheroni e formaggio", e ci introduce al lato più scherzoso degli Annihilator, con dei riff pesanti che contribuiscono a creare il senso d'ansia che accompagna una persona... nell'attesa che l'acqua si metta a bollire! Frase cult del testo è "Macaroni Maniac!", testo tra l'altro supportato dalla maniacale interpretazione di Pharr. Questa traccia è una "sorpresa", in quanto si muove su canoni opposti rispetto alle canzoni ascoltate fin ora: la semplicità riesce a trascinare l'ascoltatore fin dal riff di apertura. Da ora l'album diventa leggermente più veloce ed immediato.
            Segue infatti Phantasmagoria, ligia ai canoni del thrash metal (potenza, immediatezza) ma allo stesso tempo in pieno stile "Annihilator". Riferita ad uno stato di disordine psicologico che porta la gente ad avere visioni di fantasmi, non ci delude, in particolar modo il break/assolo. Ed anche qua il ritornello ci tiene in pugno.
            Altra mazzata con Reduced to ash, che semplicemente parla di un disastro nucleare. A farla da padrone è la ritmica, che spesso e volentieri cattura l'attenzione con delle variazioni niente male. La batteria è semplice ma fa bene il suo dovere, e l'assolo è come al solito superlativo.
            Chiude l'album I am in command, che parla del potere che i tele evangelisti esercitano su una determinata categoria di persone. Thrash metal lineare, ritornello da stadio anche questo, Buona la batteria. Perfetta conclusione per un album come Never, Neverland.

            Insomma, nonostante la produzione sia inferiore rispetto allo standard attuale, mi sento di consigliare quest'album a tutti gli amanti del thrash metal, ma se siete alla ricerca un "qualcosa" di più, la genialità di Jeff Waters non vi deluderà.

            Voto: 95/100
            Ultima modifica di Kranium; 26-05-2004, 23:23.

            Life was like a fantasy / Taken by reality / Does anyone remember me / You once knew me
            Flashes of the day / I knew I was here to stay / But no one stays the same


            Lo Spambollino fa FIGO

            Membro del W.A.M. (War Against Mediaset) e presidente del M.A.I. (Musicians Against Ibanez)

            Ex Custode della Topa (R.I.P.) [NCdS]

            Dedico questa riga alla topa. Mi mancherai.

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            • #21
              DARK MOOR - BETWEEN LIGHT AND DARKNESS (2003)



              1. Memories
              2. From Dawn to Dusk
              3. A Lament of Misery
              4. Echoes of the Sea
              5. Mistery of Goddess
              6. The Shadow of the Nile
              7. Dies Irae (Orchestral Version)
              8. The Fall of Melnibone

              Elisa C. Martin - Vocals
              Enrik Garcia - Guitars
              Albert Maroto - Guitars
              Annan Kaddouri - Bass
              Jorge Saez - drums


              Parlare di Between Light and Darkness in questo momento vuol dire tornare indietro di qualche anno, a quando cioe' i Dark Moor erano una delle piu belle realta' della scena metal iberica ed europea. E dire che questo EP e' solo del 2003, ma in un'anno, tante, troppe cose sono successe ai Dark Moor.
              Nel momento della pubblicazione di questo lavoro, il gruppo era gia in pratica sciolto: Elisa, Albert e Jorge avevano gia salutato la band. Solo Annan e Enrik restavano nei Dark Moor, o meglio, restavano in possesso del monicker decidendo di continuare a usarlo.
              Questo EP funge infatti da congedo, piu che altro perche era gia pronto da pubblicare.
              Composto da 6 inediti e da 2 tracce gia note, si avvale ancora una volta della collaborazione di Luigi Stefanini (uno dei personaggi piu illustri del panorama metal italiano) alle tastiere e alla produzione, e mostra i Dark Moor alle prese con il loro lato piu intimista, almeno nelle prime 3 tracce.

              Nelle prime tre songs a dominare sono infatti le chitarre acustiche dal forte sapore spagnolo di Enrik e Albert.
              Ad aprire e' Memories. Le chitarre acustiche si fondono con flauti e violini, e la voce di Elisa, piu delicata del solito, si staglia in questo mid dall'antico sapore folk. E' raro trovare voci femminili nel panorama power metal, e quella di Elisa e' sicuramente una delle piu affascinanti e versatili.
              A Memories segue un'altro brano in chiave folk-acustica, From Dawn to Dusk, piu cadenzata, ma che mostra gli stessi canoni della precedente. Egregio il lavoro della sezione ritmica. Annan corre sulle note con il suo basso, mentre Jorge, preciso e pulito, si lascia anche andare a qualche passaggio virtuoso. Si cominciano a sentire anche i primi cori nel refrain, anche se non sono certo i cori dei lavori precedenti. Quelli li troveremo piu avanti.
              Si continua su questa linea con A Lament of Misery, piu lenta delle precedenti. Una ballad trascinante, dove ancora una volta la voce di Elisa conduce il brano su toni drammatici. Soliti elementi: violini, flauti, e molta, molta atmosfera. E un break molto intrigante, con cori intrecciati a rendere particolare il momento.
              La quarta traccia, Echoes of the Sea, e' una strumentale che ricorda molto la musica classica di Mozart. Tre minuti di intermezzo, messi li' probabilmente per indicare che e' terminato il momento acustico dei Dark Moor.
              Al termine dello strumentale, arriva il pezzo per cui questo album merita di essere acquistato: Mistery of Goddess.
              Ricalcando lo stile dei Dark Moor, il brano e' un mix di energia, sinfonia e maestosita'. Arrivano finalmente le chitarre distorte, tornano le ritmiche aggressive, Elisa torna a cantare come sa. Insomma, un brano alla Dark Moor, con l'orchestra che coadiuva il brano a meraviglia, mentre i passaggi fra acustico e distorto continuano ad alternarsi. Un bel brano davvero, che mi fa pensare a dove i Dark Moor sarebbero ora se ancora avessero con loro Elisa.
              Tocca poi a Shadow of the Nile. Come dice il titolo stesso, ricca di spunti dalla musica che ricorda l'Egitto. Piu che altro spunti che riportano all'Aida. In particolare le orchestrazioni e i cori riportano alla musica lirica. Un'altro buon pezzo, ma che forse risulta un po monotono.
              Sempre in tema di musica classica e lirica, i Dark Moor riprendono alla loro maniera Dies Irae, dal Requiem di W.A. Mozart. Gia presente su The Gates of Oblivion, viene qui riproposta con ancora piu orchestrazioni, che la rendono ulteriormente epica e maestosa. Strofe in inglese e ritornelli in latinorum si susseguono incessanti, fra partizioni orchestrali, passaggi di clavicembalo e cavalcate in doppia cassa.
              E' il momento dell'ultimo pezzo. E i Dark Moor ripescano un'altro loro classico, tratto dal loro primo Ep. Cosi i Dark Moor ci raccontano la storia di Elric di Melnibone, tenendo sempre i loro soliti canoni compositivi. Si tratta in pratica della seconda suite, piu lunga di Dies Irae (che durava 9 minuti e passa). Devo essere sincero, questa canzone mi ricorda molto i Blind Guardian di Somewhere Far Beyond. La canzone presenta quindi un continuo susseguirsi di cavalcate, tempi cadenzati, chitarre che inseguono violini, cori epici, passaggi orchestrali. Una canzone complessa che non riesce mai a diventare banale o ripetitiva.

              Peccato. Peccato che questo sia l'addio dei Dark Moor che adoravo. La band ha inciso un nuovo disco con una nuova formazione, ma, ahime, non riesco proprio a farmelo piacere. Hanno abbandonato le massiccie orchestrazionio per lavorare molto di piu sulle chitarre, perdendo la magia che creavano. Mi manca la voce di Elisa, che e' andata a cercare fortune migliori con i Fairyland.
              Between Light and Darkness e' un lavoro comunque piacevole. Certo, un'Ep non riesce a rendere bene l'idea di quello che una band e', o puo' dimostrare, ma resta da avere per tutti i fans del gruppo. Mi sono sempre molto arrabbiato con chi paragonava i Dark Moor ai nostri Rhapsody. Vedo davvero pochi punti in comune fra le due bands, diverso tipo di orchestrazioni, diverso l'uso delle chitarre, diverso il modo di concepire e di strutturare i brani.
              Considero i Dark Moor molto piu elevati rispetto a Turilli e soci, ma, ripeto, e' un vero peccato che la vecchia formazione si sia sciolta. Ci hanno perso in primis loro, ma ci ha perso una scena che aveva trovato una valida leva per riportare in alto un movimento oramai troppo stereotipato e monotono.

              Voto: 85/100

              Zender R. Velkyn
              He had a cloak of gold and eyes of fire
              And as he spoke I felt a deep desire
              To free the world of its fear and pain
              And help the people to feel free again
              Why don't we listen to the voices in our hearts
              Cause then I know we'd find, we're not so far apart
              Everybody's got to be happy, everyone should sing
              For we know the joy of life, the peace that love can bring
              URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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              • #22
                DARK TRANQUILLITY - THE MIND'S I (1997)



                1. Dreamlore Degenerate
                2. Zodijackyl Light
                3. Hedon
                4. Scythe, Rage and Roses
                5. Constant
                6. Dissolution Factor Red
                7. Insanity's Crescendo
                8. Still Moving Sinews
                9. Atom Heart 243.5
                10. Tidal Tantrum
                11. Tongues
                12. The Mind's Eye

                Mikael Stanne - Vocals
                Niklas Sundin - Guitars
                Fredrik Johansson - Guitars
                Martin Henriksson - Bass
                Anders Jivarp - Drums

                Era da un po che volevo cimentarmi con un album dei miei adorati Dark Tranquillity, e la scelta e' caduta su The Mind's I, fondamentalmente perche era forse molto piu semplice recensire lavori che adoro in tutto e per tutto come Projector, Haven o The Gallery. E poi perche questo album e' forse il piu bistrattato e meno considerato dai fans del gruppo. Anche per me non e' di certo il piu amato, anzi, nella mia classifica discografica dei DT sta all'ultimo posto, ma contiene almeno due o tre canzoni che sono da inserire fra le loro migliori, a mia modesta opinione.

                Siamo nel 1997, e i Dark Tranquillity, trovata finalmente una formazione stabile, si cimentano con il capitolo successivo a The Gallery. Compito arduo bissare il loro migliore lavoro, che li ha catapultati ai primi posti del movimento death metal scandinavo. A due anni di distanza quindi, dopo il non molto convincente Ep Enter Suicidal Angels, i Dark Tranquillity ci riprovano.
                La scelta dei DT e' quella di abbandonare almeno parzialmente le emotive composizioni di The Gallery per cercare una via musicale e compositiva piu diretta e veloce. In pratica questo lavoro funge da spartiacque fra la prima e la seconda era dei Dark Tranquillity, quella che li vedra' pestare sempre meno, ma scrivere pezzi sicuramente piu complessi e articolati, poggiandosi molto sull'effettistica e sui synth.

                Ma l'inizio e' invece in vecchio stile. Dreamlore Degenerate si basa sulla classica metrica dei brani di scandinavian death, con un tempo tiratissimo che mostra subito le solite innate e indiscutibili qualita' vocali di Stanne. Alla sfuriata iniziale segue un'arpeggio sporcato da una leggera distorsione, su cui ancora una volta Stanne da gran prova di se'. Ma la velocita' torna presto a guidare il brano, per alternarsi a continui stacchi che rendono piacevole il brano. Si puo' gia notare una differenza dai vecchi DT.
                Segue uno dei classici di sempre della band, Zodijackyl Light, sulla falsariga del precedente. Quindi ancora questo alternarsi di accelerazioni e rallentamenti, per un brano comunque che resta nella storia del gruppo.
                Con Hedon si comincia a intravedere invece la strada che i DT prenderanno. Considerarla una balld e' forse un po esagerato, ma il pezzo si regge su una sezione ritmica molto lenta, potente ma mai troppo veloce. Le chitarre hanno cosi tutto il tempo per creare intrecci di arpeggi molto piacevoli. Ma e' solo un'impressione. Ecco che arriva l'accelerazione, potente e furiosa, ma ben lontana da quelle del passato.
                Si continua sulla strada gia intrapresa con Scythe, Rage and Roses. Bellissima l'accelerazione centrale del brano, con le chitarre sugli altari, e finalmente un Jivarp convincente. Fino a qui mi aveva infatti convinto poco.
                Arriva un'altro arpeggio, ad introdurre Constant, altro pezzo lento ma dalla struttura poco lineare, dove si apprezza il lavoro della batteria. Ottimo il lavoro delle chitarre.
                Si torna a correre con Dissolution Factor Red, altro brano di vecchia scuola, che parte e finisce tirato e veloce. Inutile ancora una volta sottolineare la devastante voce di Stanne.
                Fin qui si puo' quindi parlare di un buon lavoro, anche se un po monotono e sulle stesse righe. Ci vorrebbe un pezzo particolare per dare una sterzata, a dare quel qualcosa che fino ad ora e' mancato.
                Detto fatto. La chitarra acustica di Sundin accompagna la voce di Sara Svensson nell'ingresso del brano che, per me assieme a Lethe, meglio rappresenta i DT: Insanity's Crescendo. All'arpeggio si sostituiscono presto le chitarre distorte, e Sara lascia il posto ai growls di Stanne. Un pezzo bellissimo, fuori dai canoni classici del death svedese, che riesce ad essere incredibilmente potente nonostante non abbia praticamente accelerazioni o parti cadenzate, se si esclude quella del bridge. Nel bel mezzo del brano tornano le chitarre pulite assieme la voce femminile, coadiuvate questa volta da Stanne. Sicuramente uno dei miei masterpiece del quintetto di Gotheborg.
                Con Still Moving Sinews si torna a correre. Il pezzo assomiglia molto, nella parte iniziale, alle ultime produzioni della band, forse uno dei piu rappresentativi a indicarne il cambiamento. Ottimo il break centrale, a spezzare il ritmo della canzone.
                Si prosegue con Atom Heart 243.5, e si torna alle vecchie accelerazioni che tanto i fans di vecchia data amavano.
                Tidal Tantrum si propone invece come un pezzo decisamente malinconico, a richiamare le atmosfere che aveva The Gallery, ma purtroppo continuo ad avere l'impressione che ho dall'inizio. Questo album e' tremendamente ripetitivo.
                Tongues segue ne piu ne meno la linea delle precedenti, con questo continuo accelero-rallento che caratterizza il disco.
                Chiude la title-track, aperta da un'arpeggio molto triste ed espressivo, che si perde man mano che prosegue in suoni campionati e dal sapore futuristico.

                Un lavoro su cui faccio fatica a esprimere un giudizio del tutto positivo. Un buon album senza dubbio, ma sembra piu il compitino di turno fatto giusto per strappare la sufficienza, o appena qualcosa di piu. Purtroppo si tratta di un lavoro monocorde, che parte e finisce nello stesso identico modo. Per fortuna il voto viene tirato su da quei due o tre brani di cui parlavo prima, ma non sono sufficienti a renderlo un grande album.
                Passo falso quindi? Non direi. Parlerei piuttosto di un obbligato passaggio a vuoto dovuto all'evoluzione che i DT stavano cercando e che troveranno con il successivo Projector. E a volte, ascoltandolo, ho l'impressione che mi faccia influenzare dal fatto che sulla copertina del cd c'e' scritto "Dark Tranquillity". Mi chiedo che giudizio gli avrei dato se a proporlo fosse stata una sconosciuta band qualunque. Ma cosi' non e', e sulla copertina c'e' proprio scritto "Dark Tranquillity".
                Quindi considero questo album solo come uno stadio dell'evoluzione che ha portato i DT ad essere la piu poliedrica e interessante band del panorama del death svedese.

                Voto: 75/100

                Zender R. Velkyn
                He had a cloak of gold and eyes of fire
                And as he spoke I felt a deep desire
                To free the world of its fear and pain
                And help the people to feel free again
                Why don't we listen to the voices in our hearts
                Cause then I know we'd find, we're not so far apart
                Everybody's got to be happy, everyone should sing
                For we know the joy of life, the peace that love can bring
                URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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                • #23
                  NOA - Noa (1994)



                  1. I don't know
                  2. Wild flower
                  3. Mishaela
                  4. Path to follow
                  5. Child of man
                  6. Eye opener
                  7. Lady night
                  8. Uri
                  9. It's obvious
                  10. Desire
                  11. Ave Maria


                  Era il "lontano" 1994 quando Achinoam Nini o meglio conosciuta come Noa, entra nel panorama della musica internazionale.

                  Gil Dor suo partner musicale di vecchia data decide di presentare questa ragazza israeliana al buon vecchio Pat Metheny, quest'ultimo rimasto impressionato decide di produrre e supervisionare questo splendido album di cui mi accingo a parlarvi.

                  La mano di Pat nella musicalita' del disco e' notevole.
                  Gia' dal primo brano non si puo' non venir presi e trasportati dalla splendida voce di Noa e dai ritmi suggestivi, semplici nella loro complessita'. Questo "non capire come e perche' possiamo volare" in questo mix di emozioni, riprendendo una frase del testo, ci accompagnera' in tutto il disco.
                  WildFlower e' una di quelle canzoni che ci mette in luce come Noa si sia lasciata contaminare dalla musica pop ma non abbia scordato le tradizioni e le sonorita' del paese da cui proviene e a cui deve molto. Anche questa caratteristica si puo' riscontrare in quasi tutti i brani della cantante.
                  Un tocco di "Etnicità" che rende ancora piu' interessante tutto il lavoro. Basti pensare alle varie "Mishaela", "Uri" e "Eye Opener" cantate in Israeliano.
                  La prima che si porta dietro gia' da album precedenti, l'ultima
                  difficilmente dimenticabile con quel suo ritmo "danzante" che ti avvolge mentre la si ascolta.
                  Anche questo voler muoversi e ballare e' a mio parere un tema fisso dell'album. E' difficile rimanere immobili mentre si ascolta ad esempio "Child Of Man". La solarita' del brano e' incredibilmente bella. E' facile vagare con l'immaginazione.
                  Molto belli e spesso non cosi' semplici anche i testi e i messaggi che l'artista manda con i suoi album e questo non ne e' un eccezione. Noa e' una delle poche Israeliane che si esibisce anche in Territorio Palestinese, oltre ad essere un continuo messaggero di Pace.
                  Un ultimo appunto lo lascio per la canzone che chiude il disco, "Ave Maria" dove Noa stessa riscrive e ritocca uno dei pezzi piu' bella della Musica classica scritto da Bach / Gunaud.
                  Se voleva chiudere in bellezza uno splendido album... posso dire che ci e' riuscita perfettamente.

                  Voto 98/100

                  -Mone-
                  Ultima modifica di d_comix84; 26-05-2004, 16:44.

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                  • #24
                    SENTENCED - AMOK (1995)



                    1. The War Ain't Over
                    2. Phenix
                    3. New Age Messiah
                    4. Forever Lost
                    5. Funeral Spring
                    6. Nepenthe
                    7. Dance on the Graven (Lil Siztah)
                    8. Moon Magic
                    9. The Golden Stream of Lapland

                    Taneli Jarva - Vocals, Bass
                    Miika Tenkula - Lead Guitars
                    Sami Lopakka - Guitars
                    Vesa Ranta - Drums

                    C'era una volta una band finlandese dedita al piu duro e canonico death metal di stampo nordico. Erano ancora lontani i tempi delle melodie di In Flames e Dark Tranquillity, e i quattro di Oulu si affacciavano sulla scena con la loro carica di brutalita' e di energia. Era il 1991, l'anno di Shadows from the Past. Nel 2002, 11 anni dopo, vede invece la luce The Cold White Light, che propone una band matura, cresciuta, ma completamente diversa da quella che si conosceva nel 1991. Le etichette per i Sentenced oggi si sprecano. Chi li definisce love metal, chi suicide metal, chi altro ancora. Ma come si e' arrivati a questo punto? Dal death metal a questo suono piu ricercato e melodico, che cosi poco ricorda gli albori del Condannato?
                    L'evoluzione dei Sentenced ha una svolta ben precisa, un punto chiave della loro storia. E avviene nel 1993, quando, fortemente influenzati dal suono dei Maiden, i Sentenced sfornano l'ep The Trooper. La cover del brano di Harris&Co si affianca ai primi esperimenti dei Sentenced dal punto di vista stilistico, ma anche vocale.
                    Taneli Jarva abbandona i classici growls per proporre una sorta di cantato piu morbido dei precedenti, ma sempre aggressivo. Sicuramente piu espressivo.
                    Passano altri due anni, e vede la luce il loro capolavoro assoluto, Amok.
                    Un disco semplicemente favoloso, che vale ai Sentenced, oltre ai moltissimi apprezzamenti, anche l'etichetta di Iron Maiden della scena estrema. Sono infatti loro la prima death metal band ad avvicinarsi alle sonorita' dei Maiden.

                    Apre le danze una scena di guerra. Colpi di fucile, urla di morte (qualcosa che puo' lontanamente ricordare One dei Metallica), poi si aggiungono le chitarre, per dare inizio a questa cavalcata che fortemente richiama alla NWoBHM. Una canzone che riesce ad essere melodica, ma anche tremendamente aggressiva, soprattuto grazie alla voce di Taneli, e alle chitarre di Sami e Miika, capaci di concedersi anche un paio di arpeggi all'interno del brano. E quella degli arpeggi sara' una chiave importante che nel cd ritroveremo spesso.
                    Segue Phenix, dall'assolo melodico e dalle ritmiche cadenzate. Altro ottimo pezzo, che introduce al primo dei masterpiece di questo lavoro:
                    New Age Messiah si apre con l'apocalittica ( non c'e' termine migliore) voce di Taneli, che predica l'arrivo del messia dell'era moderna. Ancora una volta sono fortissimi gli accostamenti ai Maiden. A tutto cio' si aggiungono voci femminili, arpeggi e tastiere. Uno dei brani che sicuramente meglio rappresenta questo periodo compositivo dei Sentenced. Bellissimo il ritornello, ancora con chitarre a intrecciarsi fra riffs e assoli.
                    Tocca al brano piu lungo del lotto, Forever Lost. Si respira un po l'atmosfera della precedente traccia, con suoni cupi e riffs ancora una volta vicini al metal tradizionale. Taneli ripropone la stessa intro vocale della precedente, e, al termine dell'intro un po sommessa, la canzone parte a buona velocita', ancora impostata sulle chitarre che eseguono doppi assoli. E anche qua voci femminili a coadiuvare Taneli.
                    Funeree campane ci accolgono invece in Funeral Spring, mentre addirittura un wah-wah apre la canzone. Il pezzo si mostra come una ballad che a tratti ha addirittura sapori 70's. Notevole la prova vocale di Taneli, una delle migliori dell'album.
                    Ecco il capolavoro dell'album, Nepenthe, che parla delle delusioni e dei dolori della vita, della maniera per "affogarli", e di come l'essere ottimisti nella vita non serva a un bel niente (Pensa a cio che di buono ha la tua vita, e' solo temporaneo. Pensa ai lati positivi della tua vita, non ci saranno per sempre). Un malinconico ma bellissimo arpeggio apre la canzone, per poi passare ad un'altro riff di scuola maideniana. Una canzone che riesce ad essere contemporaneamente dolce e spietata, delicata e potente. L'espressivita' di Taneli, che sembra soffra davvero nella sua interpretazione, da' alla canzone una grande profondita', mentre ancora le chitarre continuano ad intrecciarsi. Bello, anzi bellissmo, l'assolo, che mostra ancora un grande Miika. Un capolavoro in musica.
                    Altro capolavoro in arrivo con Dance of the Graves. Ancora wah-wah ad aprire, e un'altro grande doppio assolo, forse il piu vicino a quelli degli Iron. La band sembra aver davvero preso e fatto suo il suono di Harris e soci, aggiungendoci quel poco spirito death metal che gli e' rimasto. La canzone finisce con il ritmo in continua ascesa, ancora nel classico stile di.....beh lo sapete.
                    Ancora su questo gioco di melodia e brutalita' arriva Moon Magic, dove ancora si intrecciano doppi assoli, arpeggi, e la straziante voce di Taneli.
                    E ora un attimo di silenzio e prendete un bel respiro, perche sta per iniziare The Golden Stream of Lapland, uno strumentale davvero folle. Guidato alla grande dal solito Miika, che si concede inaspettati virtuosismi con la sua chitarra, seguito a ruota dagli altri membri, si tratta di uno strumentale con momenti estremamente melodici e malinconici, a cui seguono momenti piu feroci e concitati. E non serve nemmeno la voce di Taneli. Qua il brano parla da solo.

                    Con questo lavoro si consacra la seconda era dei Sentenced, quella a meta' fra il death e la musica che poi proporranno. Presto Taneli Jarva lascera' la band, e l'arrivo di Ville Laihala alla voce stravolgera' completamente il suono dei Sentenced, fino a farli arrivare ai giorni nostri.
                    Era comunque impensabile, un paio di anni prima a questo lavoro, che la band potesse prendere questa strada e maturare queste evoluzioni.
                    Il lavoro contiene gli elementi piu disparati, passando da sonorita' del metal degli 80's e toccando persino atmosfere dei 70's.
                    Un'esperimento riuscito alla grande, direi. Un disco da avere a mio giudizio, un'altro di quelli che rientra a pieno diritto nella mia top ten di sempre.

                    Voto:95/100

                    Zender R. Velkyn
                    He had a cloak of gold and eyes of fire
                    And as he spoke I felt a deep desire
                    To free the world of its fear and pain
                    And help the people to feel free again
                    Why don't we listen to the voices in our hearts
                    Cause then I know we'd find, we're not so far apart
                    Everybody's got to be happy, everyone should sing
                    For we know the joy of life, the peace that love can bring
                    URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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                    • #25
                      PARADISE LOST - DRACONIAN TIMES (1995)



                      1. Enchantement
                      2. Hallowed Land
                      3. The Last Time
                      4. Forever Failure
                      5. Once Solemn
                      6. Shadowkings
                      7. Elusive Cure
                      8. Yearn of Change
                      9. Shades of God
                      10. Hands of Reason
                      11. I See Your Face
                      12. Jaded

                      Nick Holmes - Vocals
                      Gregor Mackintosh - Guitars
                      Aaron Aedy - Guitars
                      Stephen Edmondson - Bass
                      Lee Morris - Drums

                      Recensisco un'altro dei dischi che fa parte della mia top ten assoluta di tutti i tempi.
                      Erano gli anni belli in cui il gothic metal si stava imponendo alla ribalta, e quattro gruppi erano considerati i maggiori esponenti: My Dying Bride, Tiamat, Anathema e, appunto, Paradise Lost.
                      Ognuno dei quattro vedeva e proponeva questo genere in maniera molto diversa. I MDB con atmosfere cupe e suoni pesanti, i Tiamat con atmosfere piu sognanti e oniriche, mentre gli Anathema erano forse i piu morbidi e ricercati dei 4. I Paradise Lost invece proponevano una miscela di sapienti chitarre, pianoforte, tastiere, unite alla voce leggermente roca ma terribilmente espressiva di Nick Holmes. Sicuramente dei 4 i Paradise Lost erano i piu vari.

                      Un malinconico pianoforte ci conduce all'interno di Enchantement, la canzone piu emozionante e complessa del lavoro. I ritmi sono lenti, e l'atmosfera viene creata grazie alle chitarre e ai cori. Anche Nick con la voce sembra esprimere tutta la sua malinconia attraverso le note. Fantastico il momento in cui la voce si incattivisce, per un crescendo sempre maggiore, che nel finale riporta anche i notevoli virtuosismi di Lee alla batteria.
                      Hallowed Land si muove invece su ritmi piu sostenuti, ancora una volta resa espressiva dalla voce di Nick. Questo fino all'arrivo del pianoforte. Una melodia dolce e drammatica al tempo stesso, che si incastona alla grande nel resto del brano.
                      E si accelera ancora, stavolta con The Last Time, canzone che sembra inizialmente piu canonica delle precedenti, ma che mostra ancora una volta le caratteristiche del gruppo di Newcastle. Gusto e ricerca dei suoni.
                      C'e' poi il secondo capolavoro in arrivo, Forever Failure. E il brano si apre con la voce di Charles Manson (non penso serva dirvi chi e'), prima del riff lento e pesante di Gregor. Ancora grande espressivita' vocale da parte di Nick, che addolcisce la voce nel ritornello, per poi tornare ad attaccare il brano nella strofa. Arpeggi sontuosi fusi a riff energici, per un'altro brano indimenticabile.
                      Il pezzo successivo, Once Solemn, lascia sicuramente spiazzati. Si tratta di un brano feroce e cattivo, ma estremamente veloce per quello che si e' visto fin qui. Sicuramente una canzone piu classica rispetto alle altre. Riff di scuola Sabbath e batteria in doppia cassa, fin qui mai sentita, se non negli stacchi fantasiosi di Lee.
                      Ma si torna presto alle atmosfere piu cupe, con la bellissima Shadowkings, anche questa cadenzata, ma carica di atmosfera.
                      Arriva poi Elusive Cure, ancora a giocare con atmosfere tristi, anche se la canzone risulta abbastanza veloce ed incisiva. Ancora memorabili gli intrecci delle chitarre, uniti a una sezione ritmica perfetta. Grandi i giochetti di Lee sugli arpeggi.
                      Yearns of Change si muove ancora sulla stessa scia delle precedenti, con il solito grande lavoro delle chitarre, ed e' il secondo pezzo "tirato", dopo Once Solemn. Poi arrivano i cori del break, prima dell'assolo di Aaron, mentre il solito Lee si concede addirittura dei controtempi. Altra grande prova, prima di un'altro degli immancabili di questo disco: Shades of God.
                      Un arpeggio che porta alla luce dolore e tristezza, prima di un'assolo che si muove sulle stesse linee. Sicuramente un'altro dei brani piu emotivi del disco, e anche qua un'altra superlativa prova di Lee.
                      Hands of Reason non si discosta dalle precedenti, ma e' una canzone che mette addosso una sensazione strana, con la rabbia e l'aggressivita' che riesce a trasmettere. Si tratta comunque sempre di un pezzo lento, ma terribilmente potente.
                      Ci si avvicina alla fine quando arriva I See Your Face, altra canzone dai toni drammatici, aperta da un'altro grande passaggio di Lee, mentre Nick continua ad alternare i toni alti e bassi della sua voce. Altro gran pezzo.
                      Chiude Jaded, opprimente nella sua lentezza, e ancora carica di sentimenti dolorosi.

                      I Paradise Lost scelgono di trasmettere tutta la loro rabbia e impotenza evitando l'eccessivo uso di synth, ma basandosi solo sulla bravura dei suoi musicisti e della sua voce.
                      Un disco difficile da recensire ma ancora di piu da comprendere. Non basta ascoltarlo, questo disco va vissuto, va analizzato a fondo, va capito. Un lavoro che trasmette emozioni ad ogni nota, che non puo' passare indifferente, che non puo' non suscitare uno straccio di sentimento.
                      Holmes e soci sono riusciti nella difficile impresa di portare tutte queste frustrazioni, questo dolore, questa desolazione e tristezza, in un dischetto di plastica. E la cosa e' riuscita, a mio giudizio, solo ad altre due o tre bands in due o tre lavori. Un disco da ascoltare nei momenti tristi, o meglio ancora, nei momenti inca**ati, per sbollire, per sfogarsi, e forse per capire finalmente dove sta nascosta la magia di questo lavoro.

                      PS. Mi rendo conto che forse ho usato troppo spesso termini come "dolore" o "tristezza", ma questo e' esattamente quello che l'album trasmette.

                      Voto:95/100

                      Zender R. Velkyn
                      He had a cloak of gold and eyes of fire
                      And as he spoke I felt a deep desire
                      To free the world of its fear and pain
                      And help the people to feel free again
                      Why don't we listen to the voices in our hearts
                      Cause then I know we'd find, we're not so far apart
                      Everybody's got to be happy, everyone should sing
                      For we know the joy of life, the peace that love can bring
                      URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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                      • #26
                        Artista: Manowar
                        Album: Sign Of The Hammer
                        Anno: 1984
                        Genere: Epic Metal





                        Line-up:
                        Eric Adams - Voce
                        Ross "The Boss" Funicello - chitarre
                        Joey DeMaio - basso
                        Scott Columbus - batteria


                        Il 1984 e' un anno magico per la band americana, infatti dopo il capolavoro Hail to the England, esce anche questo Sign of The Hammer, che si presenta all'altezza dei suoi predecessori.
                        In totale questo e' il quarto album dei Manowar, e l'ultimo propriamente Epic Metal. La band come al solito si presenta con una line up estremamente affiatata e ricca di personalita', con un superlativo Eric Adams dietro al microfono, un Ross Funicello grandioso in fase di riffing, e capace di alternare assoli splendidi e memorabili, a assoli insipidi e privi di idee, e con una fase ritmica ottimamente supportata dalla tecnica di Joey DeMaio e dalla potenza di Scott Columbus.
                        Il cd inizia con All Men Play On 10, classica musica tamarra dei manowar, dedicata alla nuova etichetta distributrice della band, e atta alla lotta contro il false metal, la seconda e' un altra musica piuttosto mediocre, Animals.
                        Il vero spettacolo inizia dalla traccia numero tre, Thor, questa musica rappresenta una delle vette massime mai raggiunte dall'epic metal di stampa manowariana, la musica presenta un songwriting ispirato alla mitologia nordica, un gran lavoro di Ross Funicello, con un riffing potente e incisivo, che esplode in un assolo trascinate, e un grandissimo Eric Adams, la successiva e' Mountains, dove si cambia spesso ritmo alternando ritmi lenti e atmosferici, a ritmi veloci e aggressivi, con un Eric Adams che padroneggia la scena con una voce calda e espressiva, il testo e' molto suggestivo, rappresenta una sfida all'altezza delle montagne, dove solo le aquile possono arrivare.
                        Con la title track si ha una botta incredibile di energia, una musica carica e veloce, che da il meglio di se in sede live, caratterizzata da un ritornello che rimane facilmente impresso e da un ottima prova ritmica e vocale.
                        Si arriva cosi' a The Oath, il mio preferito tra quelli del cd, con una grandissima prova di tutta la band, un grande Ross nel riffing e in fase solista, una grande prova di Scott e Joey in fase di accompagnamento e come al solito un ottimo Eric Adams.
                        La successiva e' il consueto assolo di basso di Joey DeMaio, Thunderpick e' probabilmente il migliore che ci propone Joey, che si riscatta cosi' dall'orrenda Black Arrow di Hail to the England, questo assolo ci porta al dolce arpeggio di basso che caratterizza l'inizio di Guayana, la prima musica con tematiche sociali dei Manowar (la seconda e' Spirit Horse Of The Cherokee del cd Triumph of Steel), Guyana parla del reverendo Jones e dei suoi esperimenti sul lavaggio del cervello e sulla manipolazione delle masse, Jones nel 1978 avrebbe ordinato ai circa 900 membri della sua setta di togliersi la vita, ingerendo del cianuro, determinando la morte di adulti e bambini.
                        Il pezzo rappresenta le sensazioni di un sacrificato della setta, questo viene sottolineato dalla grandissima prova vocale di Eric Adams, molto teatrale e ricca di pathos, un pezzo degno sicuramente di concludere questa grande era dei manowar, l'era epic, da qui in poi la band si cimentera' in brani piu tipicamente Heavy/Power, un era moderna che a mio avviso nn tocchera' mai le vette compositive del primo periodo.
                        In definitiva questo album non e' sicuramente all'altezza del capolavoro Into Glory Ride, o del bellissimo Hail to the England, per due semplici motivi:
                        il primo e' la presenza di brani anonimi come All Men Play on Ten, Animals e Thunderpick, il secondo e' la breve durata di questo cd, che collegato al primo riduce i veri capolavori a solo cinque brani, un po pochi per dare il titolo di capolavoro al cd.
                        Il cd comunque e' sicuramente molto buono che nessun appassionato di Epic Metal e della band, dovrebbe lasciarsi sfuggire.

                        Voto: 88/100

                        Track List:
                        All Men Play On 10
                        Animals
                        Thor (The Powerhead)
                        Mountains
                        Sign Of The Hammer
                        The Oath
                        Thunderpick
                        Guyana (Cult Of The Damned)

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                        • #27
                          EUROPE - WINGS OF TOMORROW

                          Artista: Europe
                          Album: Wings Of Tomorrow
                          Anno: 1984
                          Genere: Melodic/Hard Rock



                          line up

                          Vocals : Joey Tempest
                          Guitar : Kee Marcello
                          Bass : John Leven
                          Keyboards : Mic Michaeli
                          Drums : Ian Haugland


                          Questo è il secondo album per la band svedese, ovvero il preludio alla fama mondiale di Tempest e compagni.
                          Il Primo album è caratterizzato da molta piu' "cattiveria", la stessa che possiamo ritrovare in certi pezzi di questo favoloso album che si distingue assai dal celebre "THE FINAL COUNTDOWN" del 1986(lo stesso anno ke i Bon Jovi publicarono "Slippery When Whet" ).
                          Ottimo gruppo, ottimo chitarrista e cantante di alta classe.

                          Il disco si apre con il fraseggio di chitarra di "Stormwind" grande canzone dotata di un bel ritmo e di una melodia ke entra facilmente in testa. Si Continua con Scream of Anger, traccia ke inizia con un ritmo molto accattivante molto sulle sonorità Heavy.
                          Open Your Hearth è la mia preferita, inizia con un intro lento di arpeggio per poi svilupparsi in una bella ritmica hard rock. Open your heart la ritroviamo anche nell' album "Out of This Word" in una versione diversa (preferibile).
                          Treated Bad Again inizia con un fraseggio di chitarra molto bluseggiante per poi continuare in una canzone dove la chitarra prende un ruolo importante... ;D
                          Aphasia è solo strumentale, veramente bella, la consiglio per capire bene lo spirito vero di Kee Marcello, uno dei miei chitarristi preferiti.
                          Wings Of Tomorrow si presenta anke essa con un ritmo molto piu heavy, ma continua con un bel ritornello melodico... insomma alla Europe!
                          Wested Time è bellissima, si puo' dire ke è proprio heavy con la ritmica sostenuta diciamo alla iron maiden ...l'assolo ricorda molto la sonorità Malmsteen.
                          Lyin Eyes, tipica canzone alla Europe, infogante e melodica la punto giusto.
                          La dolce Dreamer, la vera ballad del cd, inizia con un intro di solo piano e voce. Molto Bella.
                          Dance the night away, ritmica veloce, Hard Rock con il solito ritornello infogante (bell'assolo!)... insomma EUROPE

                          Voto 90/100

                          neW -- icq # 575727946 --neW
                          Jovinko L'elfo Silvano
                          Vivaldi l'elfo Oscuro

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                          • #28
                            AMORPHIS - ELEGY (1996)



                            1. Better Unborn
                            2. Against Widows
                            3. The Orphan
                            4. On Rich and Poor
                            5. My Kantele
                            6. Cares
                            7. Song of the Troubled One
                            8. Weeper on the Shore
                            9. Elegy
                            10. Relief
                            11. My Kantele (acoustic reprise)

                            Tomi Koivusaari - Vocals, Guitars
                            Esa Holopainen - Lead guitars, Sitar
                            Olli-Pekka Laine - Bass
                            Kim Rantala - Keyboards
                            Pekka Kasari - Drums
                            Pasi Koskinen - Lead Vocals

                            Album complesso e articolato questo che mi appresto a recensire. Nel filone del death metal scandinavo nato nei primi anni 90 figuravano anche i finnici Amorphis, autori di un death metal dai toni molto cupi e grezzi.
                            Difficile l'impresa di bissare Tales from the Thousand Lakes, il platter che li ha portati alla ribalta internazionale, proponendoli in una nuova veste decisamente piu melodica, ma ben lontana dai canoni dei vicini "svedesi".
                            Con questo lavoro gli Amorphis esplorano nuovi mondi, andando a toccare tasti fino ad allora impensabili, quali la psichedelia, il folk nordico, e sonorita' piu moderne come la new wave.
                            Quello che ne esce fuori si materializza in questo Elegy, un disco che dal mio punto di vista riesce a surclassare TftTL senza troppa fatica, ma proprio per la sua complessita' risulta difficile da digerire e capire. Troppe sono infatti le sfumature che lo caratterizzano, e poi non sempre il genio creativo viene visto di buon occhio, in modo particolare da quei fan legati alle vecchie produzioni.
                            Gli elementi nuovi sono fondamentalmente due: il continuo alternarsi di clean vocals e growls (rispettivamente di Pasi e Tomi), e il massiccio uso delle tastiere, con il preciso e instancabile lavoro di Kim, capace di passaggi memorabili.

                            Ma partiamo dall'inizio.
                            Elegy e' una sorta di concept basato sul Kanteletar, libro di poemi nordici che e' per i finlandesi una sorta di bibbia. E infatti ogni canzone rappresenta in qualche modo una novella o un poema del libro.
                            Apre il lavoro l'ottima Better Unborn. L'atmosfera folk si respira fin dal primo istante, mescolando sapientemente elementi nordici ed elementi orientali (il sitar). Irrompono i growls, ma l'atmosfera non e' mai pesante, resa sognante dalle keys di Kim e dall'ottimo lavoro delle due chitarre.
                            Buono anche il lavoro di Pekka, che ha preso il posto di Jan Rechberger, dimissionario dietro le pelli. Il mid viaggia quindi su quest'atmosfera piacevole, fra wah-wah e ritmiche serrate, mentre Pasi (altro nuovo arrivo nella band) e Tomi continuano ad alternarsi le parti vocali.
                            Piu tirata e' la successiva Against Widows, caratterizzata da un grande doppio assolo iniziale, mentre Pekka scatena la furia della sua doppia cassa. Ancora alternanza di vocals, quasi a sottolineare i diversi momenti ed episodi che la canzone vive. Bellissimo l'assolo, ancora una volta tutto eseguito con il wah-wah.
                            Ecco arrivare il primo masterpiece di questo cd, The Orphan. Chitarre cariche di effetti aprono le danze, mentre le tastiere disegnano ancora magiche atmosfere. Possiamo considerare questa canzone una ballad un po cadenzata, viste le sue caratteristiche tecniche e stilistiche. Il lavoro compositivo degli Amorphis si poggia fortemente sui synth, che non servono solo a riempire, ma hanno un vero e proprio ruolo da protagonista, continuando a disegnare melodie folk sopra le chitarre di Tomi ed Esa. Totale assenza di growls in questo pezzo, che risulta nonostante cio' ugualmente incisivo e diretto, con tanto di accelerazione finale, con l'assolo ripetuto ossessivamente che comincia a correre sempre di piu.
                            Con On Rich and Poor si torna a correre, seguendo fortemente le melodie di Against Widows. E tornano anche i growls, anche se oramai si e' capito che la voce portante non e' piu quella sporca, ma la clean di Pasi. Un'altra canzone davvero degna di nota, che subisce la stessa accelerazione della precedente.
                            Tocca poi alla canzone che ha ispirato tutte le altre, quella cioe' che parla del libro di cui parlavo prima, My Kantele. Si tratta di un pezzo lento, caratterizzato ancora dai pesanti growls di Tomi, che forse qua riesce a dare il meglio di se, ricordando molto le vocals di TftTL. Ancora l'ennesimo cambio di tempo nel ritornello, che sembra diventato una costante, mentre si notano atmosfere molto 70's, a richiamare un po le sonorita' che poteva avere la PFM. Altro piccolo capolavoro di questo cd.
                            Ed ecco il pezzo piu controverso dell'intero lavoro, Cares. L'inizio e' decisamente pesante. Chitarre stoppate creano un pesante muro, mentre le tastiere continuano a viaggiare su toni folk.
                            La canzone sembra abbastanza ordinaria, finche non arriva lo stop della canzone. E qui succede quello che non ti aspetti. La batteria di Pekka viene coadiuvata da una fisarmonica, mentre le chitarre pulite passano in levare. E fin qui potrebbe starci, se non fosse che dopo l'ennesima esplosione aggressiva di Tomi, arriva la stessa melodia precedente, ma stavolta riproposta con sonorita' techno-trance!!!! Si, lo so che puo' sembrare assurdo, ma il risultato e' a dir poco geniale, e non sfigura minimamente nel complesso della canzone. Sono geniali questi ragazzi. E il pezzo risulta decisamente piacevole e ben fatto.
                            Si continua sulla linea gia vista, fatta di accelerazioni e rallentamenti anche con la successiva Song of the Troubled One. Gli elementi sono sempre gli stessi. Cosi ancora tastiere che rasentano la follia creando melodie impensabili per un gruppo death metal, mentre per il secondo pezzo consecutivo e' completamente assente la voce di Pasi.
                            Si passa poi al folk vero e proprio, almeno nell'introduzione, con Weeper on the Shore, ancora a far rivivere atmosfere psichedeliche e cariche di richiami ai 70's. Da sogno anche il break centrale, con il duetto synth-chitarra solista, mentre le ritmiche stoppate caricano la canzone fino a farla esplodere nell'assolo finale.
                            Ed eccoci al vero capolavoro dell'album, la title track Elegy, una delle poche canzoni che a distanza di anni mi emoziona come se la ascoltassi la prima volta. Un delicato pianoforte fa da introduzione alla voce di Pasi, che prende la canzone per mano per portarla all'aggressivo ritornello. La canzone potrebbe sembrare ordinaria fino alla conclusione del bellissimo assolo di Esa, seguito finalmente dall'arrivo dei growls di Tomi. Ma ecco che ancora una volta gli Amorphis stupiscono. Mentre la canzone sembra morire nella sua maniera piu canonica, ritorna il pianoforte dell'introduzione. E l'atmosfera cresce, si fa intensa, quasi palpabile. Al pianoforte si aggiungono i synth, e ancora cresce la sensazione che la canzone deve ancora rivelare la sua parte piu bella. E infatti cosi e'. La canzone esplode in un grandissimo assolo di tastiere, a cui fa seguito quello chitarristico. Un'atmosfera indescrivibile, che sfuma in un fade dal sapore mistico. Questo e' un CA-PO-LA-VO-RO!
                            Finita l'esaltazione per un pezzo come non ne sentivo da tempo, torniamo a noi. Relief e' terribilmente veloce, e caratterizzata dall'eccellente lavoro della sezione ritmica. Basso e batteria fanno tutto in simbiosi, e ad ogni colpo di rullante o cassa corrisponde una nota di basso. Lo dico ora, ma e' cosi dall'inizio dell'album. Comunque ancora atmosfere folk per questo pezzo, ancora una volta infarcito di tastiere fantastiche.
                            Si chiude, e tocca alla versione acustica di My Kantele, piu bella della precedente, forse perche piu intima, forse perche piu dolce. Solo Pasi la canta, ed e' bellissima. Anche il suono della batteria e' volutamente reso piu soft, per un risultato che sa tanto di canzone attorno al fuoco, con amici e birre! Ma non mancano naturalmente le solite geniali tastiere di Kim, mentre l'assolo viene stavolta eseguito con una fisarmonica. Il finale vede comparire una parte che non c'era nella versione elettrica. Parte che rende la canzone ancora piu intimista e folk, visto che l'assolo stavolta viene eseguito con il sitar. Davvero un'altro pezzo notevole.

                            Eccoci alle conclusioni finali. Non posso non consigliare questo disco a tutti, amanti del death e non, amanti del metal e non. Un disco a 360 gradi, che ha definitivamente fatto esplodere la maturita' degli Amorphis, che pian piano abbandoneranno definitivamente il death per continuare a cercare questo tipo di sonorita' complesse ed articolate.
                            Ritengo che sarebbe stato troppo semplice proporre un clone di TftTL. Gli Amorphis hanno invece lasciato da parte quello che il music businness chiedeva loro, e hanno deciso di osare, di esplorare. E il risultato e' a dir poco fantastico. il disco non fu visto di buon occhio da tutti, in modo particolare fu rifiutato dai fans piu attaccati alle sonorita' classiche che gli Amorphis proponevano, ma per me questo resta ancora oggi il loro capolavoro. Un disco coraggioso, pieno di stile, di gusto, di armonia, di atmosfere sognanti, sapientemente mescolate a feroci sfuriate metallare.
                            Ripeto, ascoltatevelo almeno una volta, ma fatelo attentamente, perche non e' un disco facile da comprendere, ma che se vi piacera', non lascera' la piastra del vostro lettore cd per molto tempo....

                            Voto:95/100

                            Zender R. Velkyn
                            He had a cloak of gold and eyes of fire
                            And as he spoke I felt a deep desire
                            To free the world of its fear and pain
                            And help the people to feel free again
                            Why don't we listen to the voices in our hearts
                            Cause then I know we'd find, we're not so far apart
                            Everybody's got to be happy, everyone should sing
                            For we know the joy of life, the peace that love can bring
                            URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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                            • #29
                              PENTAGRAM - BIR (2002)



                              1.Tigris
                              2. Bir
                              3. Seytan Bunun Neresinde
                              4. Bu Ameli Goren Sensin
                              5. Mezarkabul
                              6. Sir
                              7. Kam
                              8. Olumlu
                              9. F.T.W.D.A.

                              Murat Ilkan - Vocals
                              Hakan Hutangac - Guitars
                              Metin Turkcan - Guitars
                              Tarkan Gozubuyuk - Bass
                              Cenk Unnu - Drums

                              Qualcuno, leggendo i nomi delle canzoni e dei componenti di questo gruppo, potrebbe prendermi per pazzo. Ebbene si, i Pentagram sono turchi, per l'esattezza di Ankara. E non sono gli ultimi arrivati, in quanto la band si e' formata nel 1986, mentre il primo lavoro ha visto la luce nel 1990.
                              Ma la loro storia e' un po particolare. In pratica il loro gruppo vive una doppia vita, visto che sono conosciuti in patria come Pentagram e in Europa come Mezarkabul. Questo piu che altro per diritti d'autore, visto che un gruppo omonimo esisteva gia, ovvero i Pentagram statunitensi. La loro discografia si e' cosi scissa in due. Ogni tanto esce un'album sotto il monicker Mezarkabul, e ogni tanto ne esce uno sotto il nome Pentagram.
                              Questa e' la loro ultima fatica, datata 2002, e visto che era destinata ai fans di casa, tutto il disco e' cantato (ahime) in turco. E' una gran sofferenza non poter capire cosa dicono, credetemi.
                              Ma cosa suonano questi Pentagram/Mezarkabul? Fondamentalmente thrash, ma molto particolare, in quanto fortemente influenzato dalle tradizioni musicali della loro terra. Possiamo definirlo azzardatamente thrash da mille e una notte. Le atmosfere sono quelle, le tipiche sonorita' che si respirano in ogni paese mediorientale. Diciamo poi che ultimamente i Pentagram hanno abbandonato un certo suono ricercato e articolato a favore di uno piu diretto e incisivo. Il precedente Unspoken (con il nome di Mezarkabul) era infatti molto piu complesso, cosi come il predecessore Anatolia (inciso come Pentagram).
                              Resta comunque complesso parlare di un lavoro di cui non si capisce una parola.

                              Tigris (probabilmente dedicata al fiume) apre questo cd. Si tratta di un'intro carico di energia, guidato dalle chitarre, ma a cui non manca fin da subito la classica impronta del suono medio orientale. Ottima la ricerca dei controtempi da parte della sezione ritmica.
                              A ruota arriva Bir. Thrash di vecchia scuola, in cui le chitarre cominciano a disegnare assoli dal sapore antico. La voce di Murat e' potente e ben calibrata, ma ben lontana dai canoni thrash. Anzi, risulta molto piu melodica della norma, anche perche viene aiutata dai cori dei compagni.
                              Il brano e' un mid ben suonato, che non presenta stravolgimenti di tempo o di metrica. Solo un pezzo thrash dannatamente melodico.
                              Con Seytan Bunun Neresinde si comincia invece a fare sul serio. Ci si avvicina di piu ai canoni europei, anche se l'impronta originale della band si sente bene anche qua. Ottima l'accelerazione centrale, che porta all'assolo di Hakan.
                              Bu Ameli Goren Sensin e' ancora un pezzo cadenzato, trascinato dalle chitarre. Interessante il lavoro di Cenk alla batteria. E inutile dire che anche qua le atmosfere sono quelle incontrate fino ad ora.
                              Arrivano invece tastiere magniloquenti per Mezarkabul, ancora sullo stile fin qui visto. Il pezzo e' piu lento del precedente, e alla fine si rivelera' un'interessantissimo strumentale, altro marchio di fabbrica dei Pentagram, che sapientemente mescolano metal e tradizioni orientali. Otto minuti che non stancano, soprattutto perche nel finale il pezzo si incattivisce diventando ossessionante nella sua furia. A questa parte ne segue una molto quieta, molto atmosferica, che introduce al finale del brano.
                              Tocca poi a Sir, altro pezzo tremendamente cadenzato e pesante, ma che non brilla particolarmente per originalita', se non per qualche numero del batterista.
                              Si torna sullo strumentale con Kam. Molto piu corta della precedente, e ancora una volta appoggiata su melodie orientaleggianti. Ottima sezione ritmica, qui davvero incisiva e presente. I Pentagram amano questi pezzi strumentali, forse per riuscire a mettere ancora piu in risalto la musica della loro terra.
                              Il penultimo pezzo, Olumlu, segue la scia dei precedenti. La scelta cade quindi su ritmiche cadenzate e incisive. Mi piace molto l'uso che il cantante fa della sua voce, che qui risulta molto espressiva.
                              E tanto per cambiare chiude un'altro strumentale, F.T.W.D.A. Davvero degno di nota e capace di creare atmosfere sognanti, passando ancora da momenti prettamente metal a momenti puramente folk. Ancora una volta nel finale l'accelerazione, anche se stavolta risulta molto piu melodica di quella sentita in precedenza, e guidata da riffs di chiara matrice thrash metal.

                              Non so se consigliare questo album a tutti. Ma lo consiglio a chi invece ama le sonorita' orientali, e a chi ha voglia di provare ad ascoltare qualcosa di nuovo, di strano e per certi versi intrigante. Ammetto che avevo preferito i complessi lavori di Anatolia a questo Bir. Qui la strada scelta e' differente, visto che i Pentagram hanno puntato su musica piu semplice e diretta, forse perdendoci qualcosa. Buona prova, ma nulla di eccezionale rispetto ai due predecessori.
                              Il voto sarebbe 80, ma diventa 75 perche e' intollerabile non capire una parola di quello che si ascolta......

                              Voto: 75/100

                              Zender R. Velkyn
                              He had a cloak of gold and eyes of fire
                              And as he spoke I felt a deep desire
                              To free the world of its fear and pain
                              And help the people to feel free again
                              Why don't we listen to the voices in our hearts
                              Cause then I know we'd find, we're not so far apart
                              Everybody's got to be happy, everyone should sing
                              For we know the joy of life, the peace that love can bring
                              URIAH HEEP - THE WIZARD (DEMONS AND WIZARDS, 1972)

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                              • #30
                                Artista: Bathory
                                Album: Nordland 2
                                Anno: 2002
                                Genere: Epic Metal








                                Line-up:
                                Tomas "Quorthon" Forsberg - Voce e Tutti gli strumenti


                                Quella che mi appresto a scrivere non e' una recensione facile per me, infatti questo non e' un semplice disco, ma e' sia la conclusione di una grandissima opera viking metal iniziata con il primo Nordland, sia, soprattutto, l'ultimo capolavoro sfornato dalla mente di Quorthon, al secolo Tomas Forsberg, recentemente scomparso per un infarto, che ha privato il mondo del metal, e della musica in generale, di uno dei suoi piu grandi esponenti, di una persona, anzi come preferiva essere chiamato, di uno strumento delle muse, che metteva tutta la sua anima in cio' che faceva..
                                Ma passiamo alla musica vera e propria, come il suo predecessore e Blood On Ice, questo cd e' interamente dedicato ai fan dei Bathory, ma nonostante questo, non scade mai nel commerciale, o nel banale, dimostrando di essere come al solito ricco di idee e di ottimi spunti.
                                Il Disco si apre con Fanfare, brano sinfonico molto potente, che coinvolge fin dall'inizio l'ascoltatore, facendogli sembrare quasi di trovarsi nelle terre del nord, tanto da respirare quasi la stessa aria che respiravano i guerrieri nordici, i vichinghi, queste sensazioni continueranno nell'intero cd, il secondo brano, Blooded Shore, ricalca lo stile di Fanfare, per la ricchezza di bassi e per l'incedere violento e potente, inoltre viene arricchita da un cantato da brividi di Quorthon, che nonostante tecnicamente non sia all'altezza di molti suoi "colleghi", riesce a infondere sensazioni e emozioni che molti altri cantanti non si sognerebbero neanche di dare..
                                Un flauto ci introduce cosi' a Sea Wolf, che arricchita da cori e organo, rende partecipe l'ascoltatore delle avventure e delle leggende di un vecchio lupo di mare, si giunge cosi' all'epicissima Vinland, caratterizzata dai classici cori in stile Bathoriano, la successiva e' The Land, probabilmente la migliore del lotto, con un grandissimo cantato di Quorthon; anche se la melodia di base di questa musica, sembra essere fredda, la canzone e' molto triste e malinconica, risultando come una dichiarazione d'amore di Quorthon alla sua terra, con forti riferimenti nel testo al bambino protagonista di Baptized in Fire and Ice del cd Hammerheart, mentre nel fraseggio centrale a One Rode To Asa Bay, sempre dello stesso cd.
                                Si arriva cosi a Death And Resurrection of a Northern Son, che si apre con riff molto potenti, quasi thrasheggianti, per poi sfociare in una dolce e triste melodia centrale, durante la quale viene narrato il pentimento, di un fratello del nord per essere stato ucciso durante una imboscata, per poi risfociare in trascinantissimi riff, quando il figlio di Odino, si ricongiugera' finalmente al suo Dio.
                                Con The Messenger si ha un altro bellissimo pezzo, sullo stile di Sea Wolf, probabilmente piu difficile da assimilare delle precedenti, ma nonostante questo, per niente inferiore, la musica coinvolge l'ascoltatore in una situazione pericolosa e di allerta, con il pericolo che la baia di asa venga attaccata dai nemici.
                                Flash Of The Silver Hammer invece nel cantato ricorda vagamente Dragon's Breath, di Nordland 1, ed e' caratterizzata dalle classiche chitarre potenti e ossessive di Quorthon, che alla fine della musica si esibiscono in un assolo lungo e ricco di effetti "speciali" come il rumore di remi, tuoni o onde marine; infine The Wheel of Sun, un pezzo molto triste, malinconico e evocativo, che viene seguito da Instrumental che chiude ottimamente questo splendida carriera...
                                L'album non e' certamente all'altezza di Hammerheart, ma risulta comunque un ottimo lavoro, una pietra miliare del panorama Epic/Viking internazionale, da avere per tutti gli appassionati del genere...
                                báhcci dearvan bárdni Oden, don ásahit uksa Valhalla


                                Voto:90/100


                                Tracklist:
                                Fanfare
                                Blooded Shore
                                Sea Wolf
                                Vinland
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                                The Wheel Of Sun

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