PECHINO - La Cina è pronta a chiudere Google. Il manifesto della Clinton contro la censura sul web, ha rovesciato lo scontro. Fino a ieri era il motore di ricerca Usa a minacciare l'abbandono del Dragone. Ora è il governo di Pechino a lanciare l'ultimatum.
Se Google non si piegherà alla censura cinese, cosa che continua prudentemente a fare dal 2006, e la Casa Bianca non toglierà la Cina dalla lista nera degli stati canaglia online, il sito cinese del colosso di Mountain Views sarà oscurato. A tre giorni dallo scoppio della guerra di Internet tra Cina e Usa, innescata dall'attacco di hacker cinesi contro 34 clienti hi-tech di Google, la decisione è stata presa ieri dai vertici del partito comunista e dai più influenti esponenti del governo. Domani saranno riprese le trattative tra le autorità e Google. Ma la strategia è cambiata. Prima delle accuse americane, Pechino era decisa a sgonfiare il caso nel tempo, trattandolo come un contenzioso commerciale. Ora che il salto politico internazionale è compiuto, e che le reazioni interne premiano la linea nazionalista del governo schierato contro "il nuovo imperialismo cybernetico degli Stati Uniti", lo strappo è destinato ad un'accelerazione prima della fine di gennaio. I leader cinesi, sorpresi dall'attacco della Clinton, si sono infine convinti che una Cina "Google-free" convenga, sia al partito che al business. Alzare il primo muro virtuale del millennio darebbe a Pechino il vantaggio dell'iniziativa nel definire la nuova geografia del potere nella Rete. La Cina non intende lasciarsi sfuggire la grande occasione offerta dalla crisi aperta da Google.
I mediatori cinesi sono stati incaricati di dire a quelli americani che se gli Stati Uniti non forniranno le prove che gli attacchi denunciati sono partiti dall'Oriente con il sostegno di Pechino, la Cina darà il via "al progetto di un Internet totalmente cinese", che ricalchi i confini nazionali reali. "La globalizzazione del web - ha spiegato Fu Mengzi, docente dell'Istituto di relazioni internazionali e consulente presidenziale - ha messo in crisi l'equilibrio tra democrazie e Paesi con tradizioni politiche diverse. Dividere le nuove acque internazionali da quelle territoriali può evitare tensioni dannose. Senza Google Pechino non perde nulla e guadagna parecchio".
Nel 2009 l'affare Internet in Cina ha superato i 74 miliardi di dollari, quest'anno arriverà ai 100. I 385 milioni di utenti animano un sesto del mercato mondiale e già hanno decretato il primato planetario dell'e-commerce di Alibaba, che ha rilevato Yahoo. L'addio di Google e l'incertezza di Microsoft e Cisco, offriranno al cinese Baidu non solo il quasi monopolio del business interno, ma l'opportunità di insidiare anche all'estero le web corportation Usa. Per questo giornali e tivù cinesi, controllati dal governo, hanno proseguito ieri la martellante campagna antiamericana. "Non siamo né l'Iraq, né le Hawaii - il tormentone - e non faremo la fine del Giappone. L'Internet di Washington non ci trasformerà in una colonia degli interessi occidentali".
Dietro lo scontro, secondo analisti vicini al governo, non ci sono solo i timori di instabilità cinesi e la necessità americana di riaffermare la leadership della libertà. Pechino è convinta che l'affondo della Casa Bianca sulla censura del web sia "una ritorsione". "E' partita - dice Sun Zhe, docente di scienza delle finanze all'università Tsinghua - dopo che la Cina ha deciso di resistere alle pressioni per apprezzare lo yuan e per non ridurre gli acquisti del debito americano. Ma non si vede perché dovremmo continuare a saldare i conti scoperti di chi cerca di frenare la nostra crescita". La Cina resta il primo cliente dei bond Usa. All'inizio dell'anno il governo ha comunicato però l'intenzione di "differenziare" le riserve in valuta estera. Nel 2010 solo il 4,6% dei titoli di stato statunitensi dovrebbero finire nelle casse cinesi, contro il 20,2 del 2008 e il 47,4 del 2006.
Considerata la sete di denaro americana per riaccendere la crescita, i vertici comunisti cinesi si sono convinti di poter vincere il braccio di ferro sulla Rete. Ieri hanno deciso così di bloccare la distribuzione in Cina di "Army of Two", kolossal del videogiochi made in Usa ambientato a Shanghai. Il gioco termina con la distruzione della metropoli pronta a inaugurare l'Expo e alluderebbe a mercenari assoldati dal governo per incarcerare i contestatori. Pronta la reazione americana. Critiche per la censura cinese su internet, a sorpresa, sono arrivate dal vice presidente di Taiwan. L'ambasciata e i consolati Usa in Cina hanno convocato nelle sedi per "un lungo confronto" i più famosi blogger dissidenti.
Se Google non si piegherà alla censura cinese, cosa che continua prudentemente a fare dal 2006, e la Casa Bianca non toglierà la Cina dalla lista nera degli stati canaglia online, il sito cinese del colosso di Mountain Views sarà oscurato. A tre giorni dallo scoppio della guerra di Internet tra Cina e Usa, innescata dall'attacco di hacker cinesi contro 34 clienti hi-tech di Google, la decisione è stata presa ieri dai vertici del partito comunista e dai più influenti esponenti del governo. Domani saranno riprese le trattative tra le autorità e Google. Ma la strategia è cambiata. Prima delle accuse americane, Pechino era decisa a sgonfiare il caso nel tempo, trattandolo come un contenzioso commerciale. Ora che il salto politico internazionale è compiuto, e che le reazioni interne premiano la linea nazionalista del governo schierato contro "il nuovo imperialismo cybernetico degli Stati Uniti", lo strappo è destinato ad un'accelerazione prima della fine di gennaio. I leader cinesi, sorpresi dall'attacco della Clinton, si sono infine convinti che una Cina "Google-free" convenga, sia al partito che al business. Alzare il primo muro virtuale del millennio darebbe a Pechino il vantaggio dell'iniziativa nel definire la nuova geografia del potere nella Rete. La Cina non intende lasciarsi sfuggire la grande occasione offerta dalla crisi aperta da Google.
I mediatori cinesi sono stati incaricati di dire a quelli americani che se gli Stati Uniti non forniranno le prove che gli attacchi denunciati sono partiti dall'Oriente con il sostegno di Pechino, la Cina darà il via "al progetto di un Internet totalmente cinese", che ricalchi i confini nazionali reali. "La globalizzazione del web - ha spiegato Fu Mengzi, docente dell'Istituto di relazioni internazionali e consulente presidenziale - ha messo in crisi l'equilibrio tra democrazie e Paesi con tradizioni politiche diverse. Dividere le nuove acque internazionali da quelle territoriali può evitare tensioni dannose. Senza Google Pechino non perde nulla e guadagna parecchio".
Nel 2009 l'affare Internet in Cina ha superato i 74 miliardi di dollari, quest'anno arriverà ai 100. I 385 milioni di utenti animano un sesto del mercato mondiale e già hanno decretato il primato planetario dell'e-commerce di Alibaba, che ha rilevato Yahoo. L'addio di Google e l'incertezza di Microsoft e Cisco, offriranno al cinese Baidu non solo il quasi monopolio del business interno, ma l'opportunità di insidiare anche all'estero le web corportation Usa. Per questo giornali e tivù cinesi, controllati dal governo, hanno proseguito ieri la martellante campagna antiamericana. "Non siamo né l'Iraq, né le Hawaii - il tormentone - e non faremo la fine del Giappone. L'Internet di Washington non ci trasformerà in una colonia degli interessi occidentali".
Dietro lo scontro, secondo analisti vicini al governo, non ci sono solo i timori di instabilità cinesi e la necessità americana di riaffermare la leadership della libertà. Pechino è convinta che l'affondo della Casa Bianca sulla censura del web sia "una ritorsione". "E' partita - dice Sun Zhe, docente di scienza delle finanze all'università Tsinghua - dopo che la Cina ha deciso di resistere alle pressioni per apprezzare lo yuan e per non ridurre gli acquisti del debito americano. Ma non si vede perché dovremmo continuare a saldare i conti scoperti di chi cerca di frenare la nostra crescita". La Cina resta il primo cliente dei bond Usa. All'inizio dell'anno il governo ha comunicato però l'intenzione di "differenziare" le riserve in valuta estera. Nel 2010 solo il 4,6% dei titoli di stato statunitensi dovrebbero finire nelle casse cinesi, contro il 20,2 del 2008 e il 47,4 del 2006.
Considerata la sete di denaro americana per riaccendere la crescita, i vertici comunisti cinesi si sono convinti di poter vincere il braccio di ferro sulla Rete. Ieri hanno deciso così di bloccare la distribuzione in Cina di "Army of Two", kolossal del videogiochi made in Usa ambientato a Shanghai. Il gioco termina con la distruzione della metropoli pronta a inaugurare l'Expo e alluderebbe a mercenari assoldati dal governo per incarcerare i contestatori. Pronta la reazione americana. Critiche per la censura cinese su internet, a sorpresa, sono arrivate dal vice presidente di Taiwan. L'ambasciata e i consolati Usa in Cina hanno convocato nelle sedi per "un lungo confronto" i più famosi blogger dissidenti.
Per questo giornali e tivù cinesi, controllati dal governo, hanno proseguito ieri la martellante campagna antiamericana. "Non siamo né l'Iraq, né le Hawaii - il tormentone - e non faremo la fine del Giappone.
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