I videogiochi aiutano ad apprendere, in qualche situazione, a parer vostro oppure rendono completamente idioti come dicono svariati gruppi di sociologi?
Un po’ di storia
Il televisore, quel potente e diffuso media offre da sempre notizie, immagini emozioni con una modalità interazionale passiva, nel senso che il telespettatore appunto guarda questo elettrodomestico.
Bene, nel 1970 in USA un giovane ingegnere non ancora trentenne, ha una intuizione: costruisce un congegno che mette in relazione l’essere umano con l’interno del televisore.
E’ possibile per la prima volta manipolare quello che si vede sullo schermo, nasce Odyssey 500 e dopo una decisa ricerca di finanziamenti nel 1971 nasce il primo videogame Pong consistente in due lineette bianche usate come racchette (che potevano essere spostate verticalmente) ed un quadratino bianco usato come pallina che produceva nell’impatto un suono che ricordava quello della pallina di celluloide usata nel ping pong.
Fu un successo ed il nostro ingegnere fondò l’Atari che divenne una ricca corporation del divertimento e nel giro di tre anni trionfò in borsa a Wall Sreet.
Da allora ad oggi i videogames sono diventati, come vedremo, molto più sofisticati e il mezzo di intrattenimento preferito dai giovani, tanto che il Servizio di Educazione alla Salute relativamente all’ambito delle scuole medie superiori, ha ritenuto di inserire tale corso nel novero delle sue iniziative, per esplorare un pianeta ancora sconosciuto alla maggior parte degli adulti e che sta rivoluzionando il linguaggio ed il costume dei giovani.
E’ una ricerca che interessa solo le scuole superiori di una provincia quella di Bolzano, ma credo che comunque emergono dei dati su cui riflettere . Cominciamo dal tempo dedicato a videogiocare: è un dato rilevante, perché ben il 40% del campione dedica dai 40’ ai 120’ a questa attività ludica che influenza di conversa le abitudini del tempo libero: sempre di più si preferisce agli amici,al gioco in cortile l’“amico/nemico” (in quanto spesso sfidante) computer.
Tempo, spesso significa anche condizionamento; l’ottima riproduzione della realtà probabilmente concorre a favorire questo fenomeno che però viene ridimensionato se il videogiocare rappresenta, secondo quanto sostenuto dalla teoria psicologica della gestalt “ lo sfondo ” e non la “ figura ” dell’attività.
Cioè, se tale attività è solo una tra quelle ludiche svolte dal minore risulta conseguentemente marginale sia temporalmente che emotivamente.
Mentre se si gioca anche con altri amici è la socialità l’elemento pregnante dell’incontro e della relazione e non la macchina.
Altro aspetto emergente negli incontri effettuati è l’ enorme interesse per questo tema con la sorpresa, da parte dei ragazzi nel trovarsi davanti un adulto che “sa” di videogiochi e che è interessato a parlarne scambiando opinioni ed ascoltando le loro riflessioni; in una parola comunica su questo tema, non giudica o appare indifferente.
Questo apre un'altra riflessione: gli adulti si occupano di videogiochi solo quando questi balzano agli onori della cronaca (crisi epilettiche in giovani che videogiocano), si accostano dunque a questa attività ludica solo in chiave ansiogena, negativa e comunque “esterna”al mondo dei giovani.
Ragazzi soli, che non si sentono ascoltati dagli adulti, e riempiono questa solitudine spesso isolandosi ancora di più nella relazione con il computer, non solo attraverso i videogiochi ma, anche utilizzando le chat line al posto del vecchio diario, per confidare alla rete, “nascosta dietro nick name”, i moti dell’anima.
Emerge nei giovani questo bisogno di trovare adulti che ascoltino e si ascoltino.
L’ elevata difficoltà nel rintracciare ed individuare le emozioni sperimentate videogiocando la dice lunga sul bisogno di non pensare, di utilizzare gran parte del tempo libero per essere soddisfatti, per divertirsi in un modo però virtuale.
Aprendo tra gli educatori il grosso tema della educazione emotiva, sulla quale la maggioranza di noi è impreparato, crede che gli altri “sentano emotivamente quello che sentiamo noi” e così, le emozioni non si comunicano, si da per scontata la loro comprensione da parte dell’altro, per poi rimanere delusi, incompresi, frustrati nelle relazioni sociali.
Cosa possiamo fare,quale è la nostra responsabilità come adulti ed educatori nei riguardi dei giovani?
Innanzi tutto recuperare la nostra autorevolezza entrando nel mondo giovanile, non snobbandolo, superficialmente definendolo lontano da noi o peggio riconducendolo alle categorie interpretative presenti nella nostra adolescenza. Noi genitori potremmo non solo dare i soldi per acquistare il CD con il gioco, ma chiedere dello stesso,interessarsi e perché no giocare, manifestando curiosità, rendendosi conto, di che cosa intratterrà nostro figlio o figlia per molte ore.
Questo significa non controllare ma condividere, informarsi ed anche, quando necessario, mettere dei confini, adducendo argomentazioni convincenti, perché tratte da una realtà conosciuta.
Stiamo vivendo una discomunicazione nata per assurdo da una eccessiva quantità di dati ed informazioni che rendono piccolo questo mondo globalizzato, ma dove si colloca la qualità dei messaggi trasmessi ? E l’ascolto, nella sua accezione psicologica di accogliere, dove è andato a finire?
Lascio queste domande aperte, chiedendo a ciascuno dei lettori di rispondere con il cuore prima che con la razionalità della mente.
Un po’ di storia
Il televisore, quel potente e diffuso media offre da sempre notizie, immagini emozioni con una modalità interazionale passiva, nel senso che il telespettatore appunto guarda questo elettrodomestico.
Bene, nel 1970 in USA un giovane ingegnere non ancora trentenne, ha una intuizione: costruisce un congegno che mette in relazione l’essere umano con l’interno del televisore.
E’ possibile per la prima volta manipolare quello che si vede sullo schermo, nasce Odyssey 500 e dopo una decisa ricerca di finanziamenti nel 1971 nasce il primo videogame Pong consistente in due lineette bianche usate come racchette (che potevano essere spostate verticalmente) ed un quadratino bianco usato come pallina che produceva nell’impatto un suono che ricordava quello della pallina di celluloide usata nel ping pong.
Fu un successo ed il nostro ingegnere fondò l’Atari che divenne una ricca corporation del divertimento e nel giro di tre anni trionfò in borsa a Wall Sreet.
Da allora ad oggi i videogames sono diventati, come vedremo, molto più sofisticati e il mezzo di intrattenimento preferito dai giovani, tanto che il Servizio di Educazione alla Salute relativamente all’ambito delle scuole medie superiori, ha ritenuto di inserire tale corso nel novero delle sue iniziative, per esplorare un pianeta ancora sconosciuto alla maggior parte degli adulti e che sta rivoluzionando il linguaggio ed il costume dei giovani.
E’ una ricerca che interessa solo le scuole superiori di una provincia quella di Bolzano, ma credo che comunque emergono dei dati su cui riflettere . Cominciamo dal tempo dedicato a videogiocare: è un dato rilevante, perché ben il 40% del campione dedica dai 40’ ai 120’ a questa attività ludica che influenza di conversa le abitudini del tempo libero: sempre di più si preferisce agli amici,al gioco in cortile l’“amico/nemico” (in quanto spesso sfidante) computer.
Tempo, spesso significa anche condizionamento; l’ottima riproduzione della realtà probabilmente concorre a favorire questo fenomeno che però viene ridimensionato se il videogiocare rappresenta, secondo quanto sostenuto dalla teoria psicologica della gestalt “ lo sfondo ” e non la “ figura ” dell’attività.
Cioè, se tale attività è solo una tra quelle ludiche svolte dal minore risulta conseguentemente marginale sia temporalmente che emotivamente.
Mentre se si gioca anche con altri amici è la socialità l’elemento pregnante dell’incontro e della relazione e non la macchina.
Altro aspetto emergente negli incontri effettuati è l’ enorme interesse per questo tema con la sorpresa, da parte dei ragazzi nel trovarsi davanti un adulto che “sa” di videogiochi e che è interessato a parlarne scambiando opinioni ed ascoltando le loro riflessioni; in una parola comunica su questo tema, non giudica o appare indifferente.
Questo apre un'altra riflessione: gli adulti si occupano di videogiochi solo quando questi balzano agli onori della cronaca (crisi epilettiche in giovani che videogiocano), si accostano dunque a questa attività ludica solo in chiave ansiogena, negativa e comunque “esterna”al mondo dei giovani.
Ragazzi soli, che non si sentono ascoltati dagli adulti, e riempiono questa solitudine spesso isolandosi ancora di più nella relazione con il computer, non solo attraverso i videogiochi ma, anche utilizzando le chat line al posto del vecchio diario, per confidare alla rete, “nascosta dietro nick name”, i moti dell’anima.
Emerge nei giovani questo bisogno di trovare adulti che ascoltino e si ascoltino.
L’ elevata difficoltà nel rintracciare ed individuare le emozioni sperimentate videogiocando la dice lunga sul bisogno di non pensare, di utilizzare gran parte del tempo libero per essere soddisfatti, per divertirsi in un modo però virtuale.
Aprendo tra gli educatori il grosso tema della educazione emotiva, sulla quale la maggioranza di noi è impreparato, crede che gli altri “sentano emotivamente quello che sentiamo noi” e così, le emozioni non si comunicano, si da per scontata la loro comprensione da parte dell’altro, per poi rimanere delusi, incompresi, frustrati nelle relazioni sociali.
Cosa possiamo fare,quale è la nostra responsabilità come adulti ed educatori nei riguardi dei giovani?
Innanzi tutto recuperare la nostra autorevolezza entrando nel mondo giovanile, non snobbandolo, superficialmente definendolo lontano da noi o peggio riconducendolo alle categorie interpretative presenti nella nostra adolescenza. Noi genitori potremmo non solo dare i soldi per acquistare il CD con il gioco, ma chiedere dello stesso,interessarsi e perché no giocare, manifestando curiosità, rendendosi conto, di che cosa intratterrà nostro figlio o figlia per molte ore.
Questo significa non controllare ma condividere, informarsi ed anche, quando necessario, mettere dei confini, adducendo argomentazioni convincenti, perché tratte da una realtà conosciuta.
Stiamo vivendo una discomunicazione nata per assurdo da una eccessiva quantità di dati ed informazioni che rendono piccolo questo mondo globalizzato, ma dove si colloca la qualità dei messaggi trasmessi ? E l’ascolto, nella sua accezione psicologica di accogliere, dove è andato a finire?
Lascio queste domande aperte, chiedendo a ciascuno dei lettori di rispondere con il cuore prima che con la razionalità della mente.
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