Fino ad ora ho parlato da tifoso italiano e ho difeso totti in quanto tale.. ora lo faccio da tifoso romanista e per tutti quelli che fino ad ora hanno detto tu lo difendi da romanista capirete la differenza....
Alle favole non piace venirci a trovare. Questo ormai è un fatto. Continuamente stupriamo il nostro ego per convincerlo che al novantesimo succederà qualcosa, cerchiamo e scoviamo astruse coincidenze per convincerci che può succedere anche a noi. Continuiamo a credere che la luce si accenderà proprio nel momento dell’assuefazione al buio. Disegniamo futuri e sogniamo rivincite, epiche ed impossibili; scontri eroici, che restituiscano al nemico un po’ del dolore patito. Costruiamo città di certezze fra le quali ci muoviamo scaltri ed indaffarati, alla ricerca di un avvenire che stenta a mostrarsi come noi lo immaginiamo. Siamo maghi, filosofi, prestigiatori cialtroni ed alla fine barboni, tre scudi in tasca e mille sogni per la testa. Siamo taglienti barzellette ed atroci sconfitte, siamo effimere vittorie, sterili supremazie, comandanti senza esercito, storie senza trama, navi senza mare: per questo ci areniamo. Siamo polvere di stelle, figli del sogno che inseguiamo non per gloria, lucro o vantaggio, ma per semplice appartenenza. Siamo belli come un prato ed agghiaccianti come un vulcano, siamo leggeri, iniqui, inconcludenti; eppure così sanguigni, virili, popolari. Siamo la conferma delle nostre teorie e la prova dei nostri sbagli; ciechi e veloci come un dramma, profumati come puttane, entusiasti come bambini. Siamo quel che siamo ed alla fine siamo noi. Quelli che da bambini, quando sbagliavano un tiro, se la prendevano col SuperTele perchè “cor Tango entrava”. Quelli che sul 2-0 il rigore lo tiravano col sinistro e quando prendevano il 2-2 si mettevano a piangere. Quelli che le figurine della lazio le attaccavano al rovescio; quelli che la lazio se la giocano perdente con l’handicap; gli stessi che al derby non riescono a guardare un calcio di rigore e si girano. Gli stessi che poi raccontano che quell’uno a zero è stato di una noia mortale perchè “nun c’è più storia”. Quelli che preferiscono vincere sporco. Quelli che insistono che nell’ottantaquattro la Coppa dei Campioni non fu disputata e ricordano a tutti che una volta la Juve è retrocessa ma è stata ripescata. Quelli che portavano il pallone per non giocare in porta. Noi, sì, quelli che sanno a memoria le battute di Thomas Milian e guai a chi dice che è volgare, per chè “è solo realista”. Quelli che fino al 2001 vedevano lo scudetto come una gloria eterna e nel 2002 hanno scoperto che può essere solo duratura, se eviti di pareggiare con il Venezia. Quelli che il papà dopo Roma-Lecce è andato ugualmente a Como, perchè il tifoso non chiede, dà. Quelli che la maglia del Capitano non la comprano perchè non se ne sentono degni: ecco chi siamo. Ed ecco perchè Francesco è il nostro Capitano: perchè è come noi. Per questo lo abbiamo abbracciato, coccolato e sospinto verso tutti i traguardi possibili ed abbiamo immaginato per lui le soddisfazioni più grandi, come se fossero nostre. Perchè è uno di noi arrivato fin là, l’unico che ci rappresenta ed inorgoglisce, l’unico che ci incarna, in mezzo a quei maledetti seimila metriquadri scarsi di erba verde e fitta. Solo che ogni tanto ci siamo scordati che essere uno di noi vuol dire anche portarsi appresso tutti i nostri difetti, la nostra spocchia, la nostra insofferenza, la nostra bastarda ansia di arrivare e non gli si può chiedere di farne a meno, perchè non sarebbe più come noi. Anch’io pensavo che quella punizione al quarantaduesimo del secondo tempo sarebbe stata analoga a quella calciata da Zizou due giorni prima e già immaginavo gli scenari di tripudio, le grida dell’esultanza, i sorrisi della vittoria e tutto il resto. Ma non è stato così. Ancora una volta la favola non è venuta a trovarci ed ho desiderato che il pallone fosse quadrato e desse retta sempre al più forte. Poi ho fatto un altro sogno: si chiama Antonio ed ha dato un appuntamento al suo e mio Capitano: la semifinale.
Alle favole non piace venirci a trovare. Questo ormai è un fatto. Continuamente stupriamo il nostro ego per convincerlo che al novantesimo succederà qualcosa, cerchiamo e scoviamo astruse coincidenze per convincerci che può succedere anche a noi. Continuiamo a credere che la luce si accenderà proprio nel momento dell’assuefazione al buio. Disegniamo futuri e sogniamo rivincite, epiche ed impossibili; scontri eroici, che restituiscano al nemico un po’ del dolore patito. Costruiamo città di certezze fra le quali ci muoviamo scaltri ed indaffarati, alla ricerca di un avvenire che stenta a mostrarsi come noi lo immaginiamo. Siamo maghi, filosofi, prestigiatori cialtroni ed alla fine barboni, tre scudi in tasca e mille sogni per la testa. Siamo taglienti barzellette ed atroci sconfitte, siamo effimere vittorie, sterili supremazie, comandanti senza esercito, storie senza trama, navi senza mare: per questo ci areniamo. Siamo polvere di stelle, figli del sogno che inseguiamo non per gloria, lucro o vantaggio, ma per semplice appartenenza. Siamo belli come un prato ed agghiaccianti come un vulcano, siamo leggeri, iniqui, inconcludenti; eppure così sanguigni, virili, popolari. Siamo la conferma delle nostre teorie e la prova dei nostri sbagli; ciechi e veloci come un dramma, profumati come puttane, entusiasti come bambini. Siamo quel che siamo ed alla fine siamo noi. Quelli che da bambini, quando sbagliavano un tiro, se la prendevano col SuperTele perchè “cor Tango entrava”. Quelli che sul 2-0 il rigore lo tiravano col sinistro e quando prendevano il 2-2 si mettevano a piangere. Quelli che le figurine della lazio le attaccavano al rovescio; quelli che la lazio se la giocano perdente con l’handicap; gli stessi che al derby non riescono a guardare un calcio di rigore e si girano. Gli stessi che poi raccontano che quell’uno a zero è stato di una noia mortale perchè “nun c’è più storia”. Quelli che preferiscono vincere sporco. Quelli che insistono che nell’ottantaquattro la Coppa dei Campioni non fu disputata e ricordano a tutti che una volta la Juve è retrocessa ma è stata ripescata. Quelli che portavano il pallone per non giocare in porta. Noi, sì, quelli che sanno a memoria le battute di Thomas Milian e guai a chi dice che è volgare, per chè “è solo realista”. Quelli che fino al 2001 vedevano lo scudetto come una gloria eterna e nel 2002 hanno scoperto che può essere solo duratura, se eviti di pareggiare con il Venezia. Quelli che il papà dopo Roma-Lecce è andato ugualmente a Como, perchè il tifoso non chiede, dà. Quelli che la maglia del Capitano non la comprano perchè non se ne sentono degni: ecco chi siamo. Ed ecco perchè Francesco è il nostro Capitano: perchè è come noi. Per questo lo abbiamo abbracciato, coccolato e sospinto verso tutti i traguardi possibili ed abbiamo immaginato per lui le soddisfazioni più grandi, come se fossero nostre. Perchè è uno di noi arrivato fin là, l’unico che ci rappresenta ed inorgoglisce, l’unico che ci incarna, in mezzo a quei maledetti seimila metriquadri scarsi di erba verde e fitta. Solo che ogni tanto ci siamo scordati che essere uno di noi vuol dire anche portarsi appresso tutti i nostri difetti, la nostra spocchia, la nostra insofferenza, la nostra bastarda ansia di arrivare e non gli si può chiedere di farne a meno, perchè non sarebbe più come noi. Anch’io pensavo che quella punizione al quarantaduesimo del secondo tempo sarebbe stata analoga a quella calciata da Zizou due giorni prima e già immaginavo gli scenari di tripudio, le grida dell’esultanza, i sorrisi della vittoria e tutto il resto. Ma non è stato così. Ancora una volta la favola non è venuta a trovarci ed ho desiderato che il pallone fosse quadrato e desse retta sempre al più forte. Poi ho fatto un altro sogno: si chiama Antonio ed ha dato un appuntamento al suo e mio Capitano: la semifinale.
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